volando
Venerdì, 17 febbraio 2006
Che dire… sto volando. Non sono sicura che scrivere sia la migliore delle soluzioni, ma quando si sta così si prova proprio tutto. Le orecchie ascoltano tutto: rumori, vibrazioni, giri del motore (neanche capissi qualcosa dei giri del motore di un aereo); il cuore prova a fare lo sciolto ma sta galoppando. Lo stomaco è lì lì per ricordarmi che esiste: vuoi vedere che questa è l’unica situazione in grado di togliermi l’appetito?
Potrei guardare in basso: sono accanto al finestrino. E’ sera e ho il sospetto che stiamo volando sopra le Alpi, quindi sotto di me c’è il nero più profondo. E poi non è rilevante: quando sono andata a New York ho passato il tempo a decidere se ho più paura di cadere in acqua oppure sulla terraferma. Non ho trovato una risposta.
In decollo mi sono stupita: ho provato un vago piacere per l’accelerazione. Ho tentato di lasciarmi andare: sono qui e tanto vale che me la goda, ho pensato. Per qualche minuto sono stata benino. Non devo pensare troppo.
Pensare… Bella impresa! Il pensiero è un aiuto ma anche una condanna: bisognerebbe pensare soft, con leggerezza. Una leggerezza che, vista la mia attuale sistemazione volante, non è poi così peregrina.
E’ arrivato il pasto: molto frugale, ma non fa differenza. Tanto non mangio. La mia dietologa mi prescriverà dieci voli al mese, se questo è l’effetto.
Ho avuto la tentazione di chiedere di incontrare il pilota: chissà perché ogni volta che salgo su un aereo vengo presa dal desiderio di confessare all’equipaggio che ho una paura tremenda di volare. Probabilmente voglio trovare protezione, rassicurazione. Oppure la confessione è liberatoria, una catarsi che spero diminuisca lo stato di ansia. Prima o poi chiederò davvero di andare in cabina di pilotaggio.
Prima o poi farò anche il corso anti-panico.
Mi bruciano gli occhi. Da questo pomeriggio. Ho bevuto molto per idratarmi: sono una che legge, so che il volo disidrata quindi prendo precauzioni. Nonostante i litri di acqua ho ugualmente gli occhi in fiamme: chiarissimo esempio di somatizzazione.
Mio marito guarda la televisione e ride. Sono contenta che sia rilassato. Lui sì che avrebbe motivo di stare male: una volta ha avuto un infarto durante un volo aereo. Non voglio pensare a quella sera, però ammiro mio marito che non si lascia fermare dai brutti ricordi.
La mia idea è che si debba vivere. Viaggiare è vivere pienamente: ecco perché sono su un volo Milano-Parigi. Mi maledico mille volte per la decisione di partire, ma so che è giusto così. L’ho capito a New York. Io sono una donna curiosa, avida di conoscere tutto ciò che riesco. E non mi limito a volere conoscere accademicamente: io voglio vedere. Per questo non ho altra strada: se la paura non è destinata a passare sono io a dovere andare avanti ostinatamente, come ho fatto in tante altre situazioni. La paura di volare, nel mio caso il terrore, non può essere l’alibi per chiudersi in casa e restringere le proprie esperienze al noto e rassicurante panorama già conosciuto.
Ho portato con me il braccialetto che mio padre regalò a mia madre in occasione della mia nascita. Mia mamma l’ha dato a me, con un bigliettino che mi commuove solo a pensarci. Ecco, se mi capita qualcosa di brutto spero che questo piccolo computer si salvi: vorrei che mia mamma leggesse queste righe un po’ sconclusionate. Vorrei che sapesse che mi commuovo pensando a lei, anche se non riesco proprio a instaurare un rapporto che possa renderla felice.
Mio marito ha appena messo in tasca un cioccolatino. Se si scioglie lui dà in escandescenze, devo ricordarmi di farglielo togliere.
Giri del motore diversi… A terra non vedo niente. Tremolìo leggero. Ogni volta che c’è un po’ di turbolenza penso che in fondo anche in automobile si sussulta. Anche in treno, e lì addirittura mi piace: è rilassante correre su un treno.
Luci basse, aereo che diminuisce la quota.
A Parigi chiameremo Jacques. Sono contenta di vederlo. E’ che quando devo partire non riesco mai a pensare a che cosa farò una volta arrivata: mi concentro sulla paura di volare e rovino tutto il bello dell’attesa. Perfino la mia valigia riflette la paura: metto dentro poche cose, con la depressione apatica del condannato a morte.
Sono un’allegrona, non c’è che dire.
Stiamo decisamente scendendo. Il comandante dice che mancano venti minuti. A terra tempo buono, temperatura sei gradi.
Domenica, 19 febbraio 2006
Ancora in quota. Guance in fiamme, adrenalina che solidifica a cubetti: potrei venderla a peso. A sinistra la mia amica tenta di farmi parlare, a destra mio marito ostenta serenità e legge un settimanale.
Non sono sicura che i miei surreni siano preparati a tanto: producono una tale quantità di ormoni dello stress che prima o poi si asciugheranno come quel laghetto tanto bello che ho visto in Sicilia. Pare che non esista più, l’acqua è finita.
E’ ovvio andare con la mente al breve viaggio a Parigi: poche ore a disposizione, abbiamo visto e vissuto meno di quel che avremmo sperato. Però è valsa la pena, lo dico nonostante abbia avuto giorni tormentati e non sempre facili. Deve esistere un senso anche per il dolore, almeno il tipo di dolore che sto provando, quello che nelle ore parigine si è trasformato progressivamente in disincanto. Meglio l’illusione o una visione più realistica di ciò che sto vivendo? I sogni fanno bene solo a tratti; la realtà è meno gradevole, ma espone a minori delusioni.
Ancora un volta si presenta la necessità di non pensare troppo. Vivere e vedere che cosa succede.
Si balla un po’, e come sempre io conto i giri del motore. Dovrebbero assumermi in una compagnia aerea come uditore dei motori: scrivo, leggo e ascolto trepidante. Adesso per esempio il rumore è cambiato… Ragazzi, devo decidere di andare al corso antipanico! Se tutto va bene domani mi informo, non si vive così.
Avrei voluto andare alla mostra di Picasso, ma non c’è stato tempo: domani propongo un bis agli amici, una nuova gita a Parigi. Oggi a Montmartre c’era troppa gente. Avrei voluto osservare con calma le persone, i ritratti e i dipinti. Alcuni erano belli, ma la pioggia e gli spintoni mi hanno innervosita. Peccato.
Scrivere un libro a Parigi… La mia amica Li potrebbe farlo, o forse ha già scritto parte dei suoi libri a Parigi. Sono contenta per lei.
Ecco le Alpi. Si balla.
Gulp.