occhi di femmina e madre
La guardo salire e scendere dalla scala di legno appoggiata all’armadio. Tentenna e trema, ogni tanto, ma riesce a farla stare dritta e a non cadere indietro sul letto o di lato sulla moquette. Le curve sono quelle che conosco: le pieghe, le linee snelle, i fianchi larghi e pieni, gli affossamenti sinuosi della pelle tonica e morbida dove affondo le mani quasi ogni notte. Tira su una gamba per volta, la piega avanti inclinandosi a destra e tende i muscoli delle cosce, con le braccia in alto per afferrare forte i pioli. Vedo i glutei (il sedere, vorrei dire, ma temo di offendere la vostra sensibilità) che si fa più tondo, poi sottile, poi di nuovo tondo, mentre va di piolo in piolo per riempire gli armadi con i maglioni vecchi da regalare a qualcuno. Almeno così ho capito, non ho badato troppo a ciò che diceva. Chi se ne frega degli armadi e dei maglioni, sono qui per guardare lei.
– Adesso che c’è Tania dobbiamo fare spazio.
Tania è nostra figlia, ha due mesi e dorme sempre. Mi sembra bella: muove la manine e prende il mio dito grosso, lo morde senza denti e se lo strofina in faccia, mangia e chiude gli occhi, si lascia lavare e cambiare da Silvia senza troppe storie. E’ una brava bambina. Non so a chi assomigli: mi metto a fissarla quando nessuno mi guarda e cerco dettagli che poi non trovo, probabilmente è troppo piccola e informe oppure sono io che non so guardare. Insomma, sono fiero di esserle padre anche se mi sembra di prendere le misure, di esplorare un essere minuscolo che ha rivoluzionato la casa. E la pienezza erotica e morbida della mia Silvia.
Perché è questo, il punto. Ho una compagna bellissima, me la invidiano tutti. Quando andiamo alle feste insieme le chiedo di vestirsi sexy, con i vestiti cortissimi che le sottolineano le forme e i tacchi più alti che riesce a portare: adoro gli sguardi sbavanti degli amici e degli sconosciuti che le colano addosso, immagino che dentro i pantaloni sentano lo stesso guizzo selvatico che ho sentito io la prima volta. E molte altre volte, dopo. Mi piace vederla desiderata, gioca con le voglie degli uomini che la circondano come se fossero shangai, costruisce sensualità senza volerlo, oppure volendolo al massimo, poi mi batte la mano sulla spalla e dice:
– Sei troppo geloso, proprio un calabrese!
Sarò anche calabrese, ma mi diverte e mi stuzzica, quando fa così. Niente è meglio del dopo, delle ore a letto al termine delle feste e delle cene eleganti, quando si toglie il vestito lenta e mi fissa, sdraiato nel letto. Mi lascia aspettare, ci mette il doppio del tempo perché vuole che il mio desiderio superi il limite, mi vuole perso e violento e impaziente di lei. E gode delle mie pupille strette su di lei e del respiro che si fa affanno. E’ la dea che se ne fotte dei quattro o cinque chili di troppo, cammina lenta e si bagna nelle mie palpebre spalancate, promette delizie che con le mani piccole e morbide mantiene e triplica, quando l’ attesa finisce. Nel bagno ho messo fotografie in bianco e nero del suo corpo nudo: si è lasciata riprendere sorridendo, ha lasciato cadere il lenzuolo che le avevo messo addosso e ammiccato al fotografo. Gli stessi occhi delle notti dopo le feste, gli occhi che si abbattono su di me molli e strazianti e seguono le mani, e la lingua, e la saliva addosso. Perché le piace essere geisha, vuole fare. Fare, dice così. Prendersi cura di me.
E’ bella, la mia Silvia. Anche adesso che sale e scende dalla scala di legno e porta su e giù maglioni che nemmeno sapevo di avere, e parla della bambina e del peso e della bambinaia che ha trovato, è bella. Crudele e feroce. Bella.
Ma Tania me l’ha portata via. Chi di voi non ha provato non può capire, non sa cosa significhi la luce che si spegne nel fondo degli occhi. Tania, la piccola e informe Tania che sto imparando a amare e proteggerò e nutrirò finché avrò vita, ha spento quella luce che probabilmente non vi saprò descrivere. Eppure. Silvia, mia santa e puttana e ritrosa e sguaiata compagna di letto, ha fatto l’amore con me fregandosene dei quaranta giorni che il ginecologo le ha detto di mantenere. Ha fatto, e basta. E’ scivolata addosso al mio corpo eccitato e non ha risparmiato gesti e baci e morsi e moine. E mi ha voluto dentro, come centinaia di altre volte. Prima. Prima di Tania.
– Fai piano, non voglio che senta.
Due o tre volte ha detto così. Ho fatto piano e non mi è costato molto: di solito era lei a fare casino. Sono i suoi gemiti a bucare i muri, è lei che negli alberghi mi costringe e tapparle la bocca con le mani quando ride perché il sesso è allegro. E’ lei, sempre. Comunque mi ha detto di fare piano e ho obbedito, ha divorato la mia voglia come prima, solo che non ha usato la voce. Ansimava senza lamenti, lasciava andare gli orgasmi senza il tono roco e impastato che, ammetto, contribuiva a eccitarmi. Pazienza, deve andare così. Non sono d’accordo, ma mi adeguo. Ricordo di avere sentito i miei scopare a otto anni e non mi pare di essere rimasto traumatizzato, ma non oso dirlo: quando si arrabbia si ritira in un mondo solo suo fatto di silenzio e l’amore diventa un ricordo, devo fare fatica a farla ritornare da me. Come quando ha scoperto i tradimenti con Carolina, la mia segretaria, ma lasciamo andare. Carolina è un’abitudine, e vive sola: non posso mollarla adesso che sto con Silvia e abbiamo avuto Tania. Scopare con lei è dirle che le voglio bene, è un gesto di affetto e gratitudine che non ha niente in comune con le lenzuola bagnate di umori e sudore quando Silvia trascina il mio corpo con sé.
Ma ritorniamo a Tania. Ha spento la luce negli occhi di Silvia, dicevo. Guardo il corpo erotico della mia donna, pieno dove è giusto e quasi offensivo nell’odore selvaggio di femmina cui il sesso non deve mancare, e percepisco una differenza che non so dire. Non è la linea: quella è ritornata uguale a prima. Testarda, ha mangiato solo proteine e ha fatto dimenticare la gravidanza ai fianchi e alla pancia. Restano i seni grossi e pesanti, adora farseli mordere e strizzare e dopo il parto sono rimasti duri e pieni di latte, ma meno male che ci sono! Mi ci diverto, su quei seni. Non è la linea, dicevo. Non è neanche la paura che Tania ci stia a sentire, non del tutto. Ci sono stati momenti di beata solitudine e avremmo potuto ritornare quelli di prima: lo siamo stati, ai suoi occhi, ma non ai miei. Gli stessi gesti, le medesime parole, ma la luce nei suoi occhi, sul fondo delle pagliuzze dorate che circondano l’iride marrone, è persa in un desiderio acquoso e dolce. Il desiderio di una mamma.
Chissà perché una femmina debba diventare mamma. Mamma dentro, intendo, con la durezza meravigliosa del desiderio che diventa più dolce. Non dovrebbe essere così, non c’è equilibrio. Scoparsi una mamma non è lo stesso.
– A cosa pensi? Sei felice?
Sta dicendo, e mi lancia un bacio. Sorrido.
– A te, sei bellissima.
Non sto mentendo. Davvero penso che sia bella. E’ la ferocia che non trovo più. La carne, capite? Affondavo le mani nel suo corpo pieno e la sentivo vibrare, era un animale vorace e irragionevole quando sapevo accenderla. Buttava la testa indietro e socchiudeva gli occhi, mi prendeva e si lasciava prendere con la voglia selvaggia della femmina. Che adesso è diventata donna. E mamma. Come si fa a prendere con la stessa irriducibile violenza una mamma?
Forse il problema è mio. Silvia è sempre Silvia, la vedo. Certo, non ha il tempo di tingersi i capelli di castano con qualche sfumatura rossa come piaceva a me, ma la capisco: i suoi bei capelli scuri crescono sull’onda delle cure a Tania, non può andare dal parrucchiere come prima, e non stanno male. Si vede che sono naturali. Naturali come forse una madre deve essere. E gli abbracci, quelli li riserva solo a Tania: è normale che ci siano, me lo ripeto ogni giorno. Però non li riconosco, sono abbracci innamorati e gentili. Delicati. Qualche volta tento di dirle che la amo, sorride e dice che anche lei mi ama. Allora mi abbraccia, per fortuna, ed è come se fossi la serie B degli abbracci. Una riserva in panchina dopo Tania che è la star, capite? Tania riceve gli abbracci spontanei, io devo chiederli o farli desiderare.
– Sei geloso di tua figlia?
Ride quando tento di portarla via alla bambina piccola e informe che sto imparando a amare. No, certo, non sono geloso! La questione è un’altra! Credo che un figlio sia una parte della famiglia, non il centro, e che la femmina resti femmina. Femmina con l’odore del desiderio, la furia bestiale dei sogni sussurrati a mezza voce mentre le sono dentro, i pensieri più lascivi confessati mentre siede su di me e si muove per torturarmi, lo sguardo sottile e puttanesco, sensuale come una provocazione palese, dei momenti in cui non possiamo toccarci perché la gente ci guarda. Femmina, così. Capite?
No, non capite. Sono sicuro che vi sembro solo egoista e folle. Niente incanto, niente elegia, nessuna mistica della paternità. Forse sono l’unico uomo che non sa adeguarsi a essere padre. O forse dovrei dire che sono l’unico uomo che non sa accettare che la sua compagna sia diventata una madre. Chissà. Scende e sale dalla scala e ride, parla e sussurra, e mi lancia baci. E’ bello guardarla così. Tania dorme, le ho chiesto di smettere con i maglioni e raggiungermi sul letto per fare l’amore. Ha guardato il corridoio, un po’ preoccupata.
– C’è la bambinaia di là.
– Meglio, si occuperà di Tania se si sveglia.
So che dirà di sì. So che le piace farlo con qualcuno nell’altra stanza. Lo farà perché il sesso la libera, perché so come toccarla. Lo farà perché pensa a Carolina e vuole portarmi via ai rari momenti di sesso pietoso con lei. Si spoglierà piano facendo crescere il mio desiderio, poi vorrà prendersi cura di me. E cercherò la luce in fondo ai suoi occhi. Senza trovarla. Perché, forse, era la luce che la rendeva femmina e non mamma.