serenata d’oro e silenzio

 In Racconti, Racconti Brevi

E’ un bel guardare. Si affaccia alla finestra della cucina con i capelli biondi sciolti sulle spalle, si china avanti per fumare la sigaretta e soffiare il fumo lontano: i capelli scendono ai lati della fronte, si aprono in due tende perfette, sgranate di fili sottilissimi del colore dell’oro. Sembrano bianchi quando il sole è più forte, superano le spalle in due archi di seta morbida e scivolano, giocano con il volto immobile e le labbra che circondano il filtro della sigaretta. E lanciano volute di fumo bianco verso di me. Cieco. O meglio, è lei a non vedermi: sono come uno specchio cieco, appunto, ma la vedo perfettamente. La aspetto tutti i giorni, tanto ho niente da fare e il lavoro che cerco senza la voglia di trovarlo lascia il tempo per annoiarsi: tengo d’occhio i vetri e le persiane socchiuse, danno proprio sulla facciata giusta di casa sua. Quella con la finestra della cucina, dove la vedo camminare su e giù e affacciarsi per fumare.

Non so quando sia iniziata. Mi sembra di averla avuta in testa sempre, eppure deve esistere un giorno uno, la partenza di questa ossessione che non riesco a trasformare in parola. Di tutto, del suo corpo snello che vedo negli abiti stretti e corti che indossa in casa, i capelli sono il vero oggetto del mio sogno, dell’amore che vorrei urlare senza sosta fregandomene delle raccomandazione di chi mi vuole bene: non so come faccia ad averli tanto morbidi, ma quando cascano avanti e inondano lo sguardo, accarezzano soffici le spalle e incorniciano il viso nascondendone solo una parte vorrei sdraiarmi sul davanzale di quella finestra e bere la massa voluttuosa e piena fino a soffocarmi, aprire la bocca perché me la riempia e scenda in gola, e giù ancora, fino allo stomaco e nei visceri, per non perdere di lei neanche un atomo. Che magia, quei capelli! L’ho vista spesso camminare per strada: la seguo quando esce da sola, capisco subito se va a incontrare un uomo oppure no, riconosco il profumo più intrigante e sensuale e la gonna più corta, e il respiro rapido e leggermente ansioso se ha un appuntamento con qualcuno che le piace. Le vado dietro, tanto non mi nota, non alza la testa per salutare. Passo dopo passo, ascolto i tacchi sul selciato e fisso con gli occhiali da sole neri i capelli che dondolano sulla schiena, formano archi orizzontali e ricadono, imprigionati alla testa ma liberi di farmi dannare. Di impazzirmi di desiderio.

Desiderio. So che penserete che sono un maniaco. Non è così. Il mio corpo non può darle il piacere, non ha mai potuto raggiungere la profondità di una donna e prenderla, possederla per generare una vita. Nel tempo, mi sono abituato: non riuscire ad amare una donna è diventato normale, tanto da convincermi che l’amore possa esistere ugualmente, altrettanto appagante e lascivo e sensuale. Basta guardarlo con gli occhi giusti. No, ciò che voglio è l’odore dei suoi capelli, il sudore pulito e leggero che copre di minuscole gocce il suo corpo, l’alito di sigaretta quando segne il mozzicone contro la facciata della casa e lo butta giù, nella strada dove poca gente passa e ancora meno di ferma. E i capelli, oh come li voglio! Li vorrei stringere in mano, annodarli alle dita e giocare, poi scioglierli e sentirli vibrare della tensione istantanea che rammollisce subito, vorrei respirarli e inabissarmi in loro mentre la sento dormire, abbandonata al mio amore. Difficile da capire? Non credo: se fate fatica è perché non li avete visti, quei capelli dorati o bianchi che illudono con un bagliore diverso ogni mattina. Sono magia e sogno, verità e menzogna, dipinto e fotografia. Sono matasse di erotismo proibito che saprei districare con le mani, se solo avessi il coraggio di avvicinarmi.

Perché non riesco ad andarle vicino. La seguo, riesco a guadagnare qualche metro se è rilassata e non bada al tempo e agli appuntamenti: passeggia persa nei pensieri e non sa che le sono dietro, che annuso il suo odore e capisco dal profumo se è stata a letto con un uomo. Non vede che mi specchio con lei nelle vetrine dei negozi, non può immaginarlo. Perché faccio fatica anche io ad accettare di esistere. Cammino e la sfioro, non so aprire bocca per salutarla. Contemplo i suoi giorni, idolatro i suoi capelli, fantastico sul corpo che vorrei leccare mentre, ferma, ansima di piacere, ma non mi avvicino. E’ la sua salvezza, forse, o la mia. Chissà che non sia la dannazione di entrambi. Fu Sonia la prima, quella che determinò tutto: aveva i capelli rossi in grossi ricci disordinati, li pettinava con orgoglio e me li faceva vedere tirandoli su con le mani.

– Ehi, stupido, viene a vedere? Ne vuoi una ciocca? Dì la verità, ti piaccio. Mi guardi e sbavi, perché non vieni qui? Conosci l’amore, stupido? L’hai mai fatto? Dai, che ti piaccio.

Rideva di me, con quei riccioli che riflettevano il sole e lo incendiavano. Il mio corpo sapeva di non poterla prendere, le mani volevano toccare le forme tonde e piene e i chili di troppo che amava ignorare, ma ricadevano morte lungo le cosce, con le dita a stuzzicare i pantaloni. E non mi muovevo.

– Eddai, mica ti mangio. Vieni qui, stupido!

Diceva così. Sapevo che sbagliava. Dentro di me ero sicuro che, se non si fosse fermata, prima o poi avrei disobbedito al medico e a mia madre e l’avrei raggiunta in casa sua. E lei non si rendeva conto: qualcuno ha detto così, dopo. Avrebbe dovuto fare come questa donna, la mia dea con i capelli biondi: ignorarmi, perché solo questa è la salvezza. Ma Sonia non mi ignorava: mi disprezzava e incitava, e se era sola si ostinava a chiamarmi perché entrassi in casa. Il resto lo sapete: sono entrato in casa sua appena prima della prigione e del manicomio, le ho tagliato i ricci ma non me li hanno lasciati tenere. Li ho chiusi con delicatezza in un foglio di giornale e ripiegati in tasca; me li hanno portati via nonostante fossero miei e mi accompagnassero nelle notti lunghe del sonno cupo dei farmaci e dei sogni tagliati male. Erano perfetti, scivolavano nelle mani come polvere: li ho lavati con cura due o tre volte, prima che qualcuno me li rubasse senza più restituirli. Dicono che l’ho uccisa, ma non me lo ricordo. A me importava solo la sua testa, gravida di enormi volute rosse che incendiavano il sole. Sonia, che donna. Peccato non averla rivista.

Ma il sole sfiora il bianco dorato della mia musa, adesso. Ha aperto la finestra e si è sporta per fumare. Questa mattina ha accennato un sorriso quando ci siamo incontrati nel vicolo per ritirare il latte.

– Buongiorno.

Ha detto, con la erre blesa. Fantastica, non immaginavo che parlasse così: la voce è roca, opaca, fa pensare al sesso. Ho avuto la tentazione di seguirla in casa, anche se non si è sognata di invitarmi. E i suoi capelli chiamavano, avreste dovuto sentirli: un canto di sirene a gesti lunghi e pigri, baluginavano l’illusione di un sonno carezzevole dei nostri corpi fusi insieme per l’eternità.

E’ un bel guardare, l’ho confidato a padre Angelo, che mi ha chiesto di stare fermo e non parlare mai con la signora. Ha controllato che prendessi le pillole e facessi i colloquio con il medico nell’ambulatorio del venerdì. Ho promesso che starò buono, cosa mi costa promettere a un prete? Non penso che sappia cosa sia l’amore per quei capelli, l’odore leggero del profumo e del sudore e la certezza di seguirla quando incontra un uomo. Non sa, non può sapere. Che per una donna così si può morire.

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