Tempesta
Dovreste sentire cosa c’è fuori. Le strade raggelate e biascicanti di acqua pullulano battistrada fangosi che corrono, riesco a sentire passi e imprecazioni sottili mescolate all’acqua che viene giù a manate.
Non mi sono alzata quando è uscito, l’ho guardato voltarmi la schiena e sobbalzare due o tre volte ridendo, poi ha fatto due passi e ha chiuso la porta. Ho immaginato qualche metro del suo incedere nel corridoio, con il cappotto sul braccio destro, ripiegato, e la valigetta di pelle preziosa nella mano sinistra.
– Grazie, è stato bello.
Ha detto, peccando di banalità. Non credo a chi dice che è stato bello, se è vero si capisce dopo, quando giorni e settimane portano altri incontri, o la richiesta di altri incontri. Perché a volte basta la richiesta, la proposta mascherata da scherzo leggiadro o, se l’uomo è coraggioso, da vero e proprio desiderio. Insomma, ha detto che è stato bello e ha inventato altre parole meno onorevoli mentre lo osservavo sorridendo, atterrita dal crollo della signorilità che non avrei immaginato. Non in lui, almeno.
I tuoni scuotono questa stanza elegante, sembrano stranieri anche loro. Quando il treno si è fermato in stazione, ieri, ho immaginato le nuove strade e i palazzi che non ho mai visto, ho provato ad abituarmi subito a una delle poche lingue che non conosco. Sono voci gutturali e cacofoniche, non c’è l’armonia sconnessa dell’olandese che ho amato. Lontanissimi dal francese, questi uomini e donne che corrono sotto una pioggia a cascata, con i tuoni che spaccano l’aria e durano infiniti secondi. Mi piace non capirli, amo perdermi nelle strade in salita oltre il ponte e scoprire che esiste un mondo che non ho mai toccato. Ho speso energie e tempo e tonnellate di curiosità intorno ai negozi pieni di roba che non volevo, ho visitato le mete classiche e quelle che immaginavo oscure. Poi ho accettato l’incontro con Giorgio che passava di qui.
– Passo di lì.
Come se fosse normale incontrarci in terra straniera, alieni in patria e uniti dall’incomprensione della lingua sotto la tempesta che abbiamo addosso. Beh, è lui ad averla addosso perché io, nuda e riposata da una doccia insieme dopo il sesso, sono su una poltrona e osservo un televisore spento e la pedicure rosso fuoco. Senza badare troppo all’impressione squallida che ha lasciato.
Ci penserò domani, credo. Mi succede di ritornare sulle frasi incuneate nella memoria e offendermi retroattivamente, i pochi amici l’hanno imparato. Non c’è molto di sicuro, con me: l’impassibile distacco con cui accolgo i discorsi più improbabili rischia di trasformarsi in rabbia furiosa ventiquattro, quarantotto ore dopo, oppure mai. Tolgo il saluto all’improvviso a gente che non capisce, la memoria bastarda vomita istanti apparentemente scivolati via senza conseguenza, e li rende assoluti. Non credo che proverò rabbia furiosa ripensando all’idiozia postcoitale di Giorgio, in realtà, ma probabilmente mi verrà voglia di sbatterlo fuori dalla mia vita più di quanto già sia fuori. Cioè totalmente.
Voglio arrivare fino al picco, domani, camminare con i muscoli tonici e tesi e uno zaino piccolo sulle spalle per raggiungere la parte della città che ancora devo vedere. Peccato per i caffè orribili della mattina, non riescono a bucare il mio umore nero e prolungano la sofferenza dei pochi che si azzardano a telefonarmi. Mi alzo cattiva, provo a scrivere un’ora e mezza per attenuare l’impatto fetido con il mondo, eppure un residuo bieco di antipatia non riesce a sciogliersi. Il caffè squaglia il grumo più ostico, evita che mi venga male alla testa, ma qui. Qui il caffè non è caffè, è acqua insozzata da schiuma marrone che sa di liquirizia. Quando vivevo in Olanda era lo stesso, più o meno, e non ho mai capito come mai riuscisse ad agitarmi molto più del vero caffè. Domattina dovrò rassegnarmi di nuovo, entrare in un locale grande che puzza di salsiccia e cipolla e chiedere brodo sporco marrone al gusto di liquirizia, pensare agghiacciata alle macchie sui denti e mandare giù per cercare la pace. Per evitare la prossimo l’impatto con me. Dovreste chiedere agli uomini che ho avuto: hanno sperimentato i miei risvegli erotici, sensuali, violenti, oppure neri. Qualcuno si è divertito, altri sono fuggiti dopo anni di gemiti sudati e qualche recriminazione piegata su un croissant.
A proposito di erotismo e risveglio. Giorgio, mi ritorna in mente. Credo sia lontano, ormai, su un taxi che lo accompagna all’aeroporto. Chissà cosa gli è colato nel cervello quando si è rivestito dopo la doccia.
– So cosa stai pensando, vedo i fumetti che escono dalla tua testa e li leggo con chiarezza. Ti chiedi quando ci rivedremo.
“Veramente ti stavo osservando e pensavo che a letto sei forte, e sei molto bello”, la mia testa ha reagito ma le labbra hanno mantenuto il sorriso. Incredula, ho sospettato un lieve istante di smarrimento in un uomo imbarazzato dal sesso e dai successivi saluti. L’ho perdonato senza incrinare le rughe intorno ai miei occhi, assolto in attesa di una riscossa verbale prima dell’addio.
– Non so quando ci rivedremo, non voglio sentirmi inseguito altrimenti scappo.
“Ma sei proprio un idiota, borioso, stupido e inutile idiota”, la testa irriverente ha scantonato e lo ha dipinto di insulti taciuti. Ho ricordato la sua età e la mia, e l’esperienza che sembra avere con le donne, con gli amori truccati che regalano gioco e non fanno troppo male. Non potevo credere che fossero davvero le sue parole, che stesse dicendo a me ciò che le orecchie sentivano.
– Non abbiamo bisogno di questo, capisci?
Metto un fermo al ricordo, adesso. Sposto qui la premessa noiosa di ogni racconto come si deve. Ho avuto uomini e donne, ho amato corpi pieni, scarni, ritrosi e fulgidi di entusiasmo. Ho riso e gridato, toccato e baciato, mi sono rotolata sulla sabbia granulosa di spiagge fredde di notte. Ho amato da sbucciarmi. Mai ho pensato al bisogno. La sola parola – bisogno – raccapriccia i miei nervi di orrore. E ho smesso, secoli fa, di preoccuparmi del dopo. Il dopo sesso, intendo. Quando Giorgio ha iniziato il delirio che ha smantellato la poesia lo osservavo vestirsi, mi compiacevo di lui e di noi. Ricordavo il corpo dentro il mio, e l’orgasmo perfetto. Questo facevo. Dalle sue labbra fluivano paure e incertezza, e la verità di una fine squallida che avrei volentieri evitato. Sarebbe bastato un istante, uno ancora. Avrebbe potuto terminare il nodo alla cravatta, sfiorarmi le labbra con il bacio elegante del disimpegno e uscire. Aspettando di vedere cosa avrei fatto dopo. Se avesse atteso i giorni e le ore, la necessità di discorsi incastrati a paura si sarebbe sciolta in un sorriso complice, nella lontananza piacevole di due ex-amanti. Invece. Le labbra, i denti, la lingua rossa che faceva timido capolino sciorinavano stupidità inattesa. Le pareti rimbombavano retorica, le mani aggranchiate ai lembi della giacca sistemavano pieghe inesistenti.
– Stupido.
L’ho detto alla porta chiusa dietro le sue spalle. Gesti perfetti di un amante che avrei ricordato con gioia ingessati da parole non necessarie. Se avesse taciuto l’avrei portato nel cuore, in silenzio. L’avrei amato, forse, senza fargli male, perché c’è amore e amore: quello per lui sarebbe stato allegro e leggero. Ma ha parlato. Incredula, come sono ora. La pedicure rosso fuoco ride della tempesta che scema e batte sui vetri, dei passi scalpiccianti sull’asfalto straniero e del vuoto di tanti incontri d’amore. L’amore giocato che avrebbe potuto divertirci. L’amore da niente, in un paese estraneo con il caffè che fa schifo.
L’amante perfetto, osservato dagli occhi soddisfatti di una donna che niente altro desidera se non portarsi dietro la magia, cade come uno sciocco. Hai ragione, lei non può definirlo altro che stupido e restare delusa. Ma che meraviglia di racconto, ha momenti di stile perfetto.
Mi piace molto, curato e con uno stile bellissimo