A Firenze si sciolgono freni

 In Blog, Racconti brevissimi

Una gru gialla spacca Palazzo della Signoria a tre quarti: è ferma, una catena spessa e lunga pende e sembra indifferente al vento che deve esserci. Deve esserci per forza, anche nella calura di primavera che a Firenze si sente forte e chiara. A Firenze fa sempre più caldo e più freddo rispetto al resto di Italia: il clima è di più, di più. Vedo ponteggi di metallo seminascosti dai tetti, e se mi affaccio giù, verso Ponte Vecchio, scorgo gli operai che restaurano un balconcino sul ponte, un luogo di misterioso paradiso. Un misterioso paradiso come la mia casa, questo appartamento che tratto come un miracolo, un dono che durerà finché deve: mi ha avvolta di quiete e concentrazione, sopra la mia testa lo spazio verde di piante e fresco di esterni non riparati dove Adriana dipingeva e suo fratello Alberto andava a scrivere, quando era a Firenze.
Arrivo portando le ansie milanesi, la cappa oscura di pensieri che spesso mi lascio infilare in testa da chi decide di conoscermi, e ci metto un po’ a ritrovarmi. La solitudine si sente, anche se Adriana aleggia sul serio (pensate ciò che vi pare, la sua presenza esiste ed è stata la prima sensazione quando sono entrata a vedere questa casa) e sorride, mi ficca nel cervello istanti che non posso dimenticare. Soprattutto, mi ricorda chi sono. Perché se sai chi sei ha risolto la maggioranza dei problemi. Ma che fatica sapere chi si è, e ancora più fatica è mantenere le dita aggrappate a ciò che è vero. Insomma, arrivo e mi sento sola, poi capisco che alla solitudine devo attingere, bere le gocce poi la cascata di creatività, di significato, di restauro di un’immagine che troppo smog, troppa fretta, troppe mani che lacerano e voci che sciupano vorrebbero alterare.
Sapeste le stupidaggini che ho sentito ultimamente. Quando mi sono svegliata questa mattina con i rumori di via De’ Bardi come sottofondo avrei voluto ridere. Se non fossero tragici, alcuni discorsi andrebbero presi a ridere, non li cito perché capita che poi la gente si riconosca e non ho voglia di offrire pretesti per carichi ulteriori di falsità da buttarmi addosso. Ne ho già abbastanza. Più avanti scriverò storie su qualche assurdità che davvero non si può tacere, al momento stendo veli e passo cipria sul volto per dissimulare le impurità più lucide che, risaltando, potrebbero inquietare. Dirò solo che vedo, ascolto, percepisco: anche quando fingo di non accorgermi, o quando sospiro trattenendo il suono dell’aria che entra vorticosa nei polmoni e sorrido da buona e stupida scema, la MariaGiovanna che perdona tutti ed è cieca. Macché, decido di non guardare, ma il mio destino è accorgermi sempre. Di tutto. Che poi, è ovvio, alcune cose mi vanno anche bene perché possiedo l’egoismo di tutti gli esseri umani normali: una bella dose di convenienza per me e per voi, sempre, e non si fa male (quasi) nessuno.
Quando caracollavo nei trentanove e temevo l’arrivo del ventuno febbraio, le donne intellettualmente oneste e non infoiate nell’invidia insulsa di qualche anno più di me (se tra qualche tempo sarò viva e vegeta e qualcuna di voi, amiche più giovani, mi sentirà dire: “Di cosa ti lamenti, sei giovane e più avanti capirai. Sì, hai qualche problema, ma sei giovane, solo questo conta, non puoi capire”, pesante e becera, non esiti a sferrare un pugno diretto al volto, con tutta la violenza possibile, esibendo poi questo pezzo a discolpa immediata) dicevano che sarei stata felice.
Felice di quaranta, della liberazione che si manifesta progressivamente con il 4 che sostituisce il 3 e la consapevolezza che cresce. Immersa in un mare di pensieri che eviterei volentieri, estenuata da sciocchezze e problemi concreti della vita quotidiana, riconosco tuttavia che quelle donne intellettualmente oneste avevano ragione. Svincolate dall’idiozia dell’invidia per l’età più giovane (non esiste invidia più cretina, l’invecchiamento ci riguarda tutte, con spietato egualitarismo), raccontavano il vero. Così come aveva ragione la Voce Saggia, univoca e rappresentativa di tanti miei amici, che profetizzava una maggiore forza dopo un grande dolore.
Ho avuto qualche dolore negli anni recenti, ho maledetto chi tentava di offrirmi una visione più in là, una speranza, e mi ritrovo adesso con una forza segreta, insospettabile, e la lucidità di avere assaggiato ancora un pezzo di me. Uno in più, per il quadro complessivo. Ribadisco ciò che dicevo ai tempi degli incontri con i lettori di “Una storia ai delfini” e ho ripreso nell’incipit de “Le parole del buio”: dell’effetto catartico e spirituale del dolore farei volentieri a meno, ma che almeno si tragga qualcosa dagli eventi indesiderati e inevitabili che ci lacerano la vita. Se possibile.
Il campanello della porta mi ha distratta. Ho aperto con lo sguardo torvo di Jack Nicholson in “Qualcosa è cambiato”, sentendomi esattamente come lui. L’ignaro e incauto visitatore ha fissato il mio rossetto mattutino (scrivo con un rossetto il cui colore cambia con l’umore, sapevate? Oggi è rosso cupo) e le pupille strette tuffate nelle iridi scure, si è affrettato a rendersi simpatico. Ha fatto bene, perché lo è sul serio, simpatico. E’ che un rintocco qualsiasi, che sia il campanello della porta o lo squillo del telefono, spacca frammenti di silenzio e, soprattutto, interrompe la scrittura. Che è assoluta, ma appare un nulla. La scrittura, sapete, apparentemente non è. Lo capisco quando qualcuno tenta di quantificare ciò che faccio e non ci riesce: chi ha la visione di bilanci e calcoli e soldi che vanno su e giù riesce a intuire quanto sia il mio impegno, e quanto il mio lavoro, solo se lo associa a cifre. Se si fa eccezione per la vendita dei libri, tutto ciò che riguarda la scrittura non si può quantificare. Quindi il più delle volte la scrittura non è.
Mi diverto, nei miei sogni sopra le righe, a immaginare cosa accadrebbe se si smettesse di scrivere. Non alludo alla poesia o alla narrativa, non posso concepire che succeda, ma alla scrittura che permette di andare avanti nella vita di tutti i giorni, alla scrittura professionale, ai semplici biglietti di appunti, alla comunicazione su internet e nei media, alle lettere che determinano decisioni o consulenze fondamentali, alle pratiche legali, alla scrittura di bandi per la richiesta di fondi di ricerca, alle spiegazioni che non si possono fornire per telefono o di persona, ai risultati degli esami, ai trattati di grandi menti che aiutano l’umanità e costruiscono cultura. Cosa succederebbe se la scrittura non ci fosse più? Mi viene da chiederlo quando colgo l’ombra del dubbio negli occhi dei concreti, dei personaggi eleganti e impettiti che si sforzano di capire perché io sia al mondo (al di fuori della pura professione medica): “Cosa accadrebbe se non scrivessi più, se chi scrive smettesse di farlo?”, la domanda affiora e la taccio, o almeno l’ho taciuta fino all’istante in cui l’ho scritta qui per poi pubblicarla nel sito internet prendendomi ogni responsabilità. Cadrebbe il silenzio, ecco cosa succederebbe se smettessimo di scrivere, e il mondo si immobilizzerebbe fino a implodere nel regresso irrimediabile.
Comunichiamo attraverso la scrittura, perfino nell’era di YouTube e dei media visivi o visuali, e degli audiolibri e dei file che si infilano nei lettori di mp3. La scrittura è bisogno e istinto, ma anche salvezza. Ma, peccato per chi ne ha fatto una professione, la scrittura non si può quantificare. Quindi non è. Una considerazione a parte riguarda la qualità della scrittura, che viene data per scontata. Poche volte si pensa che importa dire, ma importa ancora di più come le cose si dicono. Vale anche e soprattutto per la scrittura. Il rischio che si svilisca un contenuto, lo si torturi rendendolo sciatto o ridicolo o addirittura lesivo esiste ed è alto. C’è chi sa scrivere e chi no, accettiamolo. C’è chi sa dipingere e chi no (io no, sono sempre stata banale, incapace e senza speranza nel disegno e nei tentativi di creatività pittorica). Mi ostino a correggere virgole, a piegare stili deludenti e privi di mordente, a rendermi antipatica correggendo con ostinazione le eufoniche perfino nei documenti che, apparentemente, non hanno grossa importanza: sono comunicatore scientifico oltre che scrittore, non riesco a tollerare la comunicazione inefficace o trasandata o, peggio, la scrittura che non ha rispetto dei destinatari. Eppure queste sembrano fisime, vezzi di scrittrice capricciosa e tracotante che ha bisogno di puntualizzare “io sono io”: a pochi viene in mente che sapere come scrivere (quindi porgere) un contenuto è questione di amore per chi legge e per il contenuto stesso, è sensibilità e rispetto per gli altri. Se porgo una carezza, che sia data bene e non diventi uno schiaffo, perché la differenza esiste e si sente.
Ecco, una telefonata mi ha persa. Era il mio padrino, chi ha letto “Diario di melassa” ne conosce i tratti. Ho risposto annullando sul nascere il fastidio, con la gioia di ascoltarlo. Gli ho parlato di questo pezzo, di ciò che avrei detto quando avessimo terminato la conversazione, a proposito dell’interruzione della scrittura. Interrompere la scrittura con un suono qualsiasi, anche la melodia più gradevole di un cellulare, è gesto orribile. L’amico che un paio di ore fa è arrivato a casa mia a sorpresa ha dovuto attraversare la barriera della rabbia, ma era preparato: sa cosa significhi, conosce lo strappo lacerante dell’interruzione della scrittura. Quindi ha schivato il colpo e guadagnato un abbraccio. Meglio per lui, e meglio per il mio padrino che ha accesso a ogni piega del mio tempo e dei miei sentimenti. Peggio invece per chi, conoscendo il mio odio per il telefono (con le eccezioni che sanno benissimo di esserlo), si ostina a non usare il meraviglioso dono tecnologico degli sms e compone il mio numero di telefono, con la risatina appena rispondo e la frase di rito: “Scusa, sai, so che detesti che ti si telefoni, ma ho da dirti solo una cosa”. Non vado avanti, ne ho parlato troppe volte, e troppe volte hanno recepito solo coloro che non avrebbero dovuto, cioè le persone che, per i miracoli rarissimi dell’amore e dell’amicizia, si sono infilate nell’elenco sparuto del “puoi telefonare sempre, ho voglia di parlare con te”.
Una campana, non ho contato i rintocchi. In fondo non mi interessano. Quando sono a Firenze il tempo assume contorni e significati diversi. Si riempie di scrittura e bellezza, e di passeggiate che sfiancherebbero i corpi più allenati; ore e ore senza fermarmi, senza più distanze e con i muscoli tonici pronti a non abbandonarmi. C’era la musica su Ponte Vecchio, ieri sera: l’ho ascoltata mentre scrivevo tormentata da tossine inevitabili, almeno per me. Sono donna di tormento e tossine da ingoiare senza riuscire a sputarle. Come quando il binge eating disorder colpiva duro e pesavo tanti chili più di adesso: mangiavo forsennatamente e non riuscivo a vomitare, eppure avrei voluto comportarmi da bulimica per compensare il carico folle, inaudito, irragionevole di calorie che ingurgitavo. Volevo vomitare e non lo facevo, me lo fece fare una volta, a titolo terapeutico, proprio il mio padrino usando uno sciroppo il cui nome taccio perché molte bulimiche mi leggono e non ho voglia di fornire loro idee malate che già hanno: questo sciroppo provoca il vomito istantaneo e violento, il mio padrino me lo fece usare subito dopo un’abbuffata patologica. Fu tremendo, ho la nausea se ci penso. Mai più! E fu l’inizio della guarigione, il primo piccolo passo di un percorso durissimo, altalenante, lungo verso ciò che sono adesso: una donna non magra ma neanche grassa che sta perdendo peso grazie a una dietologa in gamba e riesce a vivere la passione per il cibo in modo sano, accettando se stessa e non permettendo al disturbo alimentare di diventare acuto, di nuovo. Per ritornare a ciò che ha scatenato questo pensiero sul binge eating disorder, non so sputare e nemmeno vomitare, questo a volte è un problema. Mando giù pensieri, ricordi, elucubrazioni nerissime che costruisco da sola sopra discorsi che fraintendo (o comprendo pienamente): li faccio entrare in me senza la capacità di espellerli e gettarli lontano. La reazione dell’allontanamento beneficio, dello sputo o del vomito di ciò che fa male ancora non mi appartiene, però ho imparato a dire basta: basta all’abuso, alle relazioni che non provocano altro che danno oppure un senso insopprimibile di deludente vuoto, alle bugie vendute come verità. Basta alle illusioni, anche, perché di illusioni troppo spesso mi sono nutrita e mi sono fatta male. Non sputo, non vomito, ma ho imparato a bloccare. Altro passo, altro metro avanti da quando ho preso quello sciroppo prescritto dal mio padrino.
La gru gialla ha fatto mezzo giro, è ferma in una posizione diversa. La sirena di un’ambulanza scuote il rumore tintinnante dell’acqua. L’Arno è scuro e gonfio. Ho il resto del giorno da aggredire, e una bistecca al sangue da mangiare nel solito ristorante sotto i portici.
Prima di salutare amici e lettori voglio rispondere alle obiezioni ricevute via email o sms sull’apertura del nuovo sito internet. Il fatto che mi sia affidata a Sara Caminati e Innovation Marketing significa che Sara ha costruito interamente il sito, l’ha arricchito di contenuti presi dal blog e dalla rassegna stampa, ha discusso con me l’aspetto e i colori, e continuerà a farlo finché a entrambe farà piacere. Ciò che scrivo nel sito è (ma che tristezza doverlo ripetere, lasciatemelo dire) esclusivamente gestito da me, senza filtri né virgole o punti modificati, e gli occhi che leggono i commenti sono miei. Non esiste ragione per evitare i commenti nel sito, amici miei: sono io, sempre io, che li leggo, positivi o negativi che siano. Sorrido al pensiero che questo sito bellissimo e ultramoderno abbia intimidito molte persone: significa che un obiettivo è centrato in pieno. Sono scrittore e medico, a lungo ho partecipato alla ricerca oncologica: come potrei rallentare di fronte alle innovazioni tecnologiche? Mio dovere, mia passione è andare avanti, e questo sito concepito dalla genialità di Sara Caminati ne è il segno.
Au revoir.

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Showing 6 comments
  • Max

    Non pensare neppure lontanamente di smettere di scrivere, neanche temporaneamente!
    Sono bellissimi i tuoi racconti, apprezzo soprattutto quelli brevi. Le tue riflessioni personali, come quelle contenute in questo post, sono pillole di esperienze, di stile e soprattutto di verità.
    Mi ha fatto sorridere il pensiero che qualcuno abbia paura del fatto che testi o commenti possano non essere scritti da te. semplicemente ridicolo.
    La tua presenza in rete è disarmante! sei attivissima e a volte mi chiedo come tu faccia a scrivere, rispondere ai lettori, lavorare in ieo, girare l’italia per le presentazioni. vai avanti a testa alta MariaGiovanna.
    Il nuovo blog è molto funzionale. Nella vecchia versione, non essendoci la ricerca facevo fatica a rintracciare dei racconti che volevo rileggere o i capitoli dei romanzi a puntate. Qui invece c’e’ tutto a portata di mano. Credo che un salto di qualità a livello tecnologico oggi sia importantissimo e non solo per gli scrittori. chi non riesce a comprenderlo è indietro. troppo.
    per quanto mi riguarda mi ripeto sempre che: chi mi ama mi segua. e tutto il resto è noia.
    ciao max

  • Lorenza Caravelli

    Brava. Proprio in tutti i sensi

  • Fabri67

    oh, come hai ragione: c’è chi sa scrivere e chi no
    tu sai scrivere, tanta altra gente me compreso no
    però ho la presunzione di dire che leggo moltissimo e so riconoscere il tuo innegabile talento
    il nuovo sito è stupendo, ma sai una cosa? ciò che mi ha colpito favorevolmente è che tu non sia mai stata sulla posizione snob degli scrittori che schifano apparentemente il progresso e la gente, desiderando poi, in segreto, comparire e diventare più famosi degli altri
    conosci gli strumenti a disposizione e li usi con chiarezza e correttezza, brava
    e brava che ringrazi chi ti aiuta, non è da tutti
    hai talento e in particolare “Diario di melassa” ha uno stile bellissimo

  • lucia

    brava, brava, brava.
    Credo che per te smettere di scrivere sia come smettere di respirare, non puoi farlo, un abbraccio

  • Bianca 2007

    LE PAROLE DEL BUIO
    hanno toccato molti occhi e molti cuori di donne,compreso il mio.Il proseguo del tuo cammino sarà solo esperienza del viaggio,DONO per chi ti avvicinerà (spero e auguro) ricambiandolo in altrettanto suo DONO.Con affetto,Mirka

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