Lezioni ignoranti di scrittura creativa
Detesto l’idea che si possa insegnare a scrivere. Si scrive oppure no. Non detesto, tuttavia, che la scrittura possa essere migliorata, e tanti o pochi trucchi insegnati perché si offra al potenziale lettore un godimento più alto. Anzi, lo scrittore non dovrebbe presumere di essere un raro esempio di genio e avrebbe il dovere morale nei confronti della scrittura e dei propri lettori di migliorare se stesso, mettersi in discussione e cercare livelli sempre più ambiziosi. Lezioni ignoranti di scrittura creativa. Ho messo un titolo così, il primo che è venuto: gli editori contestano e cambiano i miei titoli, sono quasi sempre brutti. Nei post in questo blog nessuno mi salva: prendete ciò che offro, anche nei titoli.
In una notte insonne ho tentato di allagare la mente di non-pensieri. L’ironia della mia vita è che nei periodi come questo, questo che mi è capitato addosso ieri e proprio non me lo aspettavo, ho vissuto tanto tempo. Sono una donna molto fortunata per alcuni aspetti, drammaticamente perseguitata da una nemesi per altri. E il vantaggio è che alla fine ci si abitua, si conoscono i meccanismi e si sa dove si va a finire. Conosco il risveglio brusco con il dolore che cade e schiaccia contro il cuscino, conosco l’idea fulminea che si insinua leggera, senza peso, ma a tradimento rischiara e spacca la mente: “E’ successo davvero, non è un incubo”. Conosco, e mi viene anche da ridere: la mia amica Loredana direbbe che siamo a pagina uno, paragrafo tre. Chissà perché non mi sposto da lì. Una pagina uno, un paragrafo tre. E le mani sulla tastiera per trascinare nella scrittura la voce solitaria della notte.
Insomma, mi sono svegliata e ho potuto fare poco per la testa partita subito veloce. Ho schivato i perché, che non aiutano, e cercato una via di fuga. E lì, ecco, è arrivata la scrittura. In altri secoli, prima dei quaranta che hanno rivoluzionato ogni cosa, avrei vomitato fuori il tormento e i fatti, e il dolore. Per guardarli e lasciarli andare. Ma siamo al dopo, e il “no” è balenato con tutta l’evidenza necessaria. Non si scrive per questo, almeno io non lo faccio (più). Nei primi tentativi di non abbandonare il letto ho afferrato il telefono e controllato gli interventi sulla mia pagina Facebook: ieri sera, nel corso di un raptus che Patrizia non ha saputo arginare con i suoi sms, ho scritto qualcosa sul sogno. “Chiedetemi di scrivere, ma mai più di sognare”, credo mi sia uscita così. Non ho considerato, non lo faccio mai, che esistono argomenti tabù, oggetti o attività umane santificati per definizione, che non andrebbero mai toccati. Il sogno, per esempio. I miei ragionamenti intontiti da una giornata che preferisco rimuovere dal ricordo hanno tirato fuori ciò che penso, e due scrittori mi sono venuti dietro. Gli altri no, hanno protestato sdegnati, qualcuno ha parlato addirittura di vaneggiamento: si vaneggia se si dice che il sogno non aiuta a vivere, non a priori. Guai a toccare mamma, bontà, sogno e Madre Teresa! Con ogni rispetto per Madre Teresa, legittimamente santa, non ho l’amore per i concetti a priori. Il sogno, quindi, non è buono a priori, e quando qualcuno te lo frantuma con crudeltà e indifferenza inattesi diventa ancora peggiore: è l’arma che tu stesso hai creato e consegnato a qualcuno che sembrava degno di fiducia, e ti ferisce a morte. Ma lasciamo andare. Ho controllato gli interventi su Facebook e capito che non avrei più dormito, in ogni caso. E cosa fa uno scrittore che non dorme? Legge, fa l’amore o scrive.
Ho optato per la scrittura. L’ho fatto consapevole che non avrei dovuto, ed ecco il senso del titolo scelto per questo post. Tento di dare a chi legge un piccolo, microscopico messaggio. So che il blog è seguito da tanti scrittori potenziali, veri, inespressi oppure fatti e finiti: a loro, ma non solo, mi rivolgo con la riflessione storta delle cinque e tredici. Dovrei essere qui a scrivere, adesso? Dovrei sul serio buttare giù parole affastellate sulla carta virtuale spezzettando il dolore che ho dentro e provando a sputarlo fuori? Soprattutto, dovrei poi pubblicare il prodotto delle mie azioni creative? Mentre scrivo le domande penso no, no e no. Aspetto con trepidante e gioiosa ansia la lezione che Andrea Bocconi (autore Guanda, uno degli incontri belli della mia vita, almeno uno di quelli che non hanno – ancora – deciso di diventare brutti) terrà il 16 giugno a Milano all’incontro con le donne operate al seno: parlerà di scrittura come reazione ai traumi, e forse, ma solo forse, dirà che serve trasformare in altro. Non raccontare esattamente il dolore come è. Vado avanti nell’esperienza di scrittura e concordo con lui, anche senza avere la sua professionalità di psicoterapeuta. Trasformare in altro. Prendere il grumo di ignoto e misterioso istinto, impastarlo, se si vuole, dei sentimenti più vari che disturbano il cuore e plasmare ad altro. Dovrebbe essere così.
Ma c’è altro. Quando ho aperto gli occhi e mi sono ritrovata in un tempo presente noto, che un periodo di inattesa e perfetta (provvisoria) bellezza aveva interrotto, ho intuito la verità dei discorsi di colleghi scrittori nei mesi e anni passati. La leggenda vuole che lo scrittore debba vivere per capire, quante volte l’ho detto anche io! Se non conosco amore e dolore e gioia e tormento, come posso renderli nelle storie che scrivo? Ritorniamo all’eccessivamente citato (da me) Jack Nicholson in “Qualcosa è cambiato”: la scena de “L’amore è…”. Lo scrittore non sa definire l’amore, non l’ha provato e non sa trovare le parole. Ci siamo, quindi, se il vecchio Jack rende in questo modo il protagonista del film dovremmo avere garanzia che chi scrive dovrebbe contemporaneamente, o prima, vivere e conoscere. Sì, ma non troppo. Perché mettiamoci d’accordo su cosa sia la scrittura. Possiamo ritenerla un passatempo, uno spazio privato con scarso impatto sulla lettura altrui, un hobby, un bisogno, una velleità presa eccessivamente sul serio. Oppure possiamo riconoscere, dopo lungo apprendistato o fulminati da un dono miracoloso alla nascita, che la scrittura sia una realtà concreta ed esigente, totalmente a parte e al di là. Ha regole e logiche che sfuggono agli improvvisati ma anche ai virtuosi della penna per riempire gli spazi vuoti del giorno o della notte. La scrittura è a sé. Esigente, egoista, esclusiva. E certo non può permettersi le deviazioni pericolose dei sentimenti eccessivi, degli amori che infiammano e finiscono male, dell’emotività ipertrofica che, fatalmente, lo scrittore si trova in sorte. Per scrivere bene si deve essere due palmi più in su, sufficientemente lontani dal fuoco.
Sufficientemente lontani dal fuoco.
Lo scrittore guarda gli altri vivere.
L’errore, me lo ripeto quando mi trovo nel letto, insonne, a mangiare le parole di Patrizia o Gianfranco o Lilli o Tiziano negli sms che tentano di salvarmi, è presumere di essere capace di vivere nonostante abbia l’essenza di chi scrive. E’ un’essenza che si fida, che ama e non mette in discussione, che diventa eros puro e thanatos altrettanto assoluto. Che uccide la capacità di fare l’unica cosa vera e saggia e genuina per cui si è nati: scrivere. Sento le mani friggere di voglia e bisogno, sento le storie accatastarsi dietro il cervello, ma l’emotività, e anche, va detto, la cattiveria di chi non si fa scrupolo nell’abusare degli altri, minano il valore assoluto della scrittura. E qui, ecco, la lezione ignorante di scrittura creativa: non commettiamo l’errore di pensare che il dolore interessi a qualcuno, non buttiamo sulla carta l’adesso e qui, soprattutto se “adesso e qui” sono frutto del comportamento di qualche imbecille che, simile a noi nell’egoismo e nella presunzione, ha spaccato il sogno (eccolo, il sogno che citavo appena qualche riga sopra) quando non faceva più comodo.
Chiacchieravo con Annalisa, ieri, che si sentiva triste e mortificata perché un articolo che avrebbe voluto fare pubblicare le era stato promesso poi negato per mancanza di tempo. Le suggerivo di lasciare correre, ma le dicevo anche che è tutto scritto, annotato con puntualità su un libro che mi segue in ogni città. Scrivere, annotare, fare scorrere la mano sul foglio per ricordare anche ciò che servirà più avanti, per recidere o confermare o discutere una relazione di lavoro. Scrivere, ma non è sempre la stessa cosa. Non era lo stesso quando mandavo sms appassionati, confidenti, intimi a un uomo che aveva la mia fiducia e il mio bene, non è lo stesso quando creo una storia e intreccio vite che si plasmano e diventano quasi subito indipendenti. C’è scrittura e scrittura. E ne esiste una, quella per me più importante, che non ha bisogno di emotività ipertrofica. Questa scrittura dice, ogni volta che cado, che avrei dovuto saperlo, e non mettermici proprio: come altri scrittori che conosco, avrei dovuto sapere che pathos e amore travolgente non abitano insieme alla creazione. Perché limano, smussano, riempiono di colori la penombra, e scardinano con l’inevitabile dolore una trama che dovrebbe essere aliena da condizionamenti.
Sono le cinque e quarantatrè, sento cantare gli uccelli e vedo la luce. Se fossi coerente butterei via tutto o nasconderei nel computer questo pezzo di scrittura improprio, ma coerente non sono mai stata: lo sono solo nelle chiusure di rapporti che non mi danno più gioia. O quando capisco di essere usata. Nel resto no, non sono proprio coerente. Quindi pubblicherò nel blog e attenderò commenti, se ce ne saranno. Nell’attesa che si plachi il tormento noto, quasi fraterno perché usuale, un tormento che condivido con il gatto Camillo seduto di traverso sulla scrivania.
Sono l’ideatrice del primo romanzo erotico in LIS per i sordi, è vero, sono, come dice Patrizia, una donna affascinante e complessa e molto desiderata (si dà sempre credito a ciò che fa piacere ascoltare), sono umorale e irascibile e capace di “succhiare l’energia” (questa alla collezione mancava, è acquisizione recente). Ma scrivo, e questa è la mia essenza. Quindi sono sola, ed è ora che le mie notti se lo mettano in testa.
Prossima volta, se mi sveglio troppo presto, riconoscerò in quale città mi trovo e sceglierò di leggere, o fare l’amore.