da Firenze, diario in pagine sparse
Scriveva con questa, lui. Lui Moravia, che tanti oggi recuperano e io non ho mai perso. Ho trovato i suoi libri e la macchina da scrivere in una casa che sto per lasciare.
Sono arrivata alla stazione di Firenze e ho sorriso alla pioggia: sembra un pianto che non mi coinvolge, non capisco se mi dica di non andare via oppure se voglia prepararmi a un distacco poco traumatico; in fondo, lasciare una città che piange pioggia monotona e insistente, quella che non permette di camminare senza ombrello, fa meno male. Chissà. Insomma, sono stata pochi minuti in coda per il taxi rinunciando alla passeggiata che da Milano sognavo, sono scesa in via De’ Bardi angolo Ponte Vecchio e ho salutato V, che non credeva che fossi davvero io. E’ passato tempo, mesi ormai. Qualcuno ha parlato per me, un amico recuperato o forse mai perso. Ha detto che lavoro tanto, per questo non sono venuta a Firenze, e non ha sbagliato. Purtroppo la mia vista ogni tanto confonde i riferimenti e non ce la fa a cogliere l’essenziale. Quando il lavoro mi rapisce, quella parte del lavoro che non so arginare, dimentico chi sono. Sempre meno, accade sempre meno in verità, ma non sono ancora brava a tenermi salda in mano. Comunque, quando sono arrivata a Firenze e sono scesa all’angolo di Ponte Vecchio ho accelerato il passo e sentito la pioggia sui capelli, tirato fuori le chiavi dalla borsa e spinto la porta pesante di ferro battuto e vetro. Ho stretto la mano di V, infilato l’ascensore e aperto le porte dell’appartamento. Clac, clac. E i libri, li ho visti sotto le grandi, enormi finestre su Ponte Vecchio e su tutto ciò che di Firenze viene in testa: Palazzo Vecchio, il Duomo, l’essenza del tramonto rosso che toglie il respiro. Ho buttato il cappotto sul tavolo e mi sono chinata, ho letto i titoli e sfogliato pagine con i nomi scritti a mano. L’almanacco della letteratura del 1925, ho pensato a qualcuno nato nel 1925 e alle mani che, prima delle mie, hanno sfrusciato piano questi fogli perfetti anche se gialli e sdentati dagli anni. Poi lei, la macchina, e le dita di Moravia a ticchettare. L’ho tolta dallo scomparto della libreria e le ho offerto respiro sul tavolino basso dove scrivo, l’ho fotografata perché non sono riuscita a farne a meno. Adriana, dal muro, rideva. Quando sono entrata l’ho vista cupa e irritata, il quadro sopra il camino non era contento della mia scelta di abbandonare. Le ho parlato, le ho chiesto di farsi vedere, ho spostato gli occhi sull’altro quadro. E sorrideva, complice. La macchina di Alberto, suo fratello, e i suoi autoritratti: una morsa giù da qualche parte, nel petto, ha suggerito che no, proprio non ho voglia di andarmene da qui. Adriana ha vissuto in questa casa molti anni insieme a suo marito, dipingeva al piano superiore dove la vista di Firenze è ancora più bella. Suo fratello Alberto (Pincherle, quindi Moravia) veniva a trovarla e scriveva lassù, sedeva nella poltrona che adesso è in camera da letto e usava i tasti della macchina da scrivere che oggi osservo come un miracolo.
La mia anima troverà una casa, un giorno. Lo dico ma non ci credo. Qualunque occhio non folle come è il mio rinuncerebbe a fuggire da qui, non scioglierebbe il dialogo che è nato subito con Adriana, che non è solo nei quadri. L’ho sentita la prima volta che sono entrata, e non sapevo che la casa fosse sua: ho sentito che c’era, e mi aspettava. Parla con me, Adriana, mi ha vista scrivere e oziare e piangere e ridere. E stringere un corpo pensando di amarlo. C’è un autoritratto in blu in camera, e gli occhi implacabili hanno vegliato il mio sonno e tutto ciò che nel letto è accaduto. Accadrà, finché resterò qui. Manca ancora tempo, ma i giorni cadono a gocce e dovrò andare. Perché l’ho scelto, sono stata io a decidere. Mi è bastato un soffio di vento del Nord: non sto evocando la protagonista di Chocolat, lei assomiglia a me e non io a lei. Il vento del Nord mi inquieta, mette addosso una furia che non so spiegare. Quando soffia devo andare, e non so dove: la destinazione arriva, si materializza come un destino. Spicco un volo confuso e, con rabbia, arrivo da qualche parte. Non scherzo, ho fatto fatica a crederci quando mi sono accorta che i giorni, le notti di completo e inspiegabile disordine, sguaiato bisogno di fuggire sono le stesse del vento del Nord: ho dovuto vivere a lungo nei porti e amare una barca per capire. C’è qualcosa nel vento del Nord che suona dentro di me, e trascina via. Mi accorgo prima dell’anima ribaltata e solo dopo del vento, la percezione dell’aria che soffia è posteriore allo stato psichico confuso, inquieto, disperatamente teso a una libertà estrema. Perfino gli sguardi addosso fanno male, quando il vento spira. Ma ritorniamo qui, e alla mia assenza. In una sera di vento del Nord ho deciso di andare via da Firenze, ho scritto alla proprietaria dell’appartamento e dato inizio alla fine. Di questa fase della mia vita. Adesso, mentre scrivo, il vento del Nord sembra ricordami chi sono, e non ho più dolore, sono già distante da qui. Non sono in alcun luogo, veramente. Ho la percezione della non appartenenza. Ricordo mio padre che dice “Hai radici, queste sono le tue radici”. E io a sentirle per finta, queste radici, a cercarle per scovare nella testa la consapevolezza. Sì, ho radici, ma dove? Non ce la faccio, se abbandono l’ipocrisia mi accorgo che non ho ancora avuto una casa. Ho avuto luoghi che, dopo, nella poesia del ricordo che copre di melassa o zucchero o neve candida e lava via parti di vero, sono diventati case che ho perso. Sempre dopo. Ho colto dettagli di intimità e protezione che sono apparsi nella calma tempo dopo essere svaniti: sono durati troppo poco, oppure non sono allenata ad accorgermi quando ci sono. Forse, ma solo forse, mi è capitato adesso di toccare istanti di quiete vera, anche senza una casa.
I rumori della strada qui sotto si mischiano alla pioggia. Anche dalla camera da letto potrei sentire rumori come questi, e alle cinque del mattino c’è sempre qualcuno che urla o canta o sbraita ubriaco. Non è silenziosa, questa parte della casa di Adriana: ascoltata da qui, Firenze è la città caotica dove qualche volta ho tentato di guidare. La peggiore in assoluto, secondo me, se viene in mente di arrivare in automobile: amo guidare, mi rilassa e non bado al tempo o ai chilometri a migliaia, ma Firenze mette alla prova. Meglio camminare. Mi succede di camminare quattro, cinque ore: mi perdo, anche, mi diluisco nelle città che voglio esplorare da sola, butto gli occhi e li incollo, faccio fotografie se me ne ricordo, respiro odori e cammino. Sempre le stesse scarpe, hanno dodici o tredici anni e reggono ancora, e il passo energico che nessuno direbbe che possieda. Cammino, anche a Firenze. Qualche volta mi fermo in mezzo a Ponte Vecchio e guardo le finestre di casa mia: immagino me in alto, al sesto piano dietro i vetri, quando in piedi osservo l’Arno e la città, quando mi chiedo cosa stiano pensando i turisti che scattano fotografie. Alle quattro del mattino, alle cinque, e spesso anche alle sei sul Ponte c’è il deserto: la luce è perfetta, il silenzio anche, mi alzo e sto ferma con gli occhi in avanti, liberi di immaginare e ricordare e disegnare un futuro che non conosco. Il Ponte vuoto è un altro ponte, è di se stesso e non di tutti, non si mercifica e sgrana in tante, troppe voci.
La macchina di Alberto Moravia, i quadri di Adriana Pincherle. Il rumore giù in strada. E il vento del Nord, che mi ha portata via anche da questa casa.
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Nessuna casa significa che sei l’anima libera che i tuoi lettori conoscono e amano. E’ un pezzo molto bello, questo.
Grazie, Pat. Spirito libero, dice qualcuno. Senza addentrarmi in indagini psicanalitiche, la rappresentazione della casa, il suo significato hanno senza dubbio un ruolo nella mia assenza.