Kafka e il recupero crediti

 In Blog, I racconti del taccuino, la posta del cuore (?)

Non c’è scampo. Non possiamo neanche più nasconderci dietro la letteratura attribuendo a Kafka le storie claustrofobiche di una burocrazia idiota. Kafka ormai non basta, siamo arrivati alla concretizzazione della favola, all’incarnazione di un immaginario che avremmo voluto tenere entro i confini di un libro.

Da qualche mese mi accadono strane cose. Vi racconto la prima. In un momento imprecisato della mia vita qualcuno, avendo preso temporaneo possesso del mio documento di identità (a mia insaputa), ha deciso di chiedere un finanziamento per acquistare una motocicletta o una piccola auto elettrica: ha falsificato la mia firma, inventato creativamente un mio domicilio a Roma nei pressi di Fiumicino e ottenuto, è inquietante dirlo, il finanziamento richiesto. Come è logico, non ha poi pagato le rate, e perché avrebbe dovuto visto che aveva la mia identità rubata a fare da scudo e garanzia? Preoccupata per alcune lettere insistenti che mi chiedevano pagamenti per me ingiustificabili, ho chiesto spiegazioni e scoperto la truffa. La denuncia è scattata, i Carabinieri mi hanno assistita con gentilezza e competenza ed è stato dimostrato che il documento di richiesta di finanziamento riportava firma e dati falsi, salvo la carta di identità che, evidentemente, era stata fotocopiata in qualche luogo ignoto (viaggio tanto da non essere in grado di intuire dove sia accaduto). “E’ successo anche a me, vedrà che macello tra un po’. Non è l’indagine, è quello che accade dopo”: un Carabiniere alto, educato e cortese mi ha salutata così, una certa sera, e le sue parole danzano nella mia testa come profezia di sventura. Il Carabiniere saggio aveva ragione: il peggio è arrivato dopo, e qui chiamo in causa Kafka che avrebbe certo raccontato meglio di me il labirinto di ottusità in cui mi sono trovata, inerme. Perché, nonostante sia stato accertato che io sia la vittima di una truffa e che quindi l’insolvenza rispetto al finanziamento non rimborsato non sia da attribuire a me, sono stata ugualmente segnalata al famigerato Centro di Sicurezza, una specie di Grande Fratello che mette all’indice chi non vuole o non può pagare e si macchia del turpe delitto dell’insolvenza. Il Centro di Sicurezza avverte chiunque entri in relazione economica con te: attenzione, non rilasciate carte di credito, non concedete prestiti né leasing, non azzardatevi ad annuire in caso di mutuo per una prima casa! La persona all’indice non offre garanzie, tenetevi lontani. Sono segnalata perché non ho pagato le rate di un finanziamento che un tizio XY di Roma ha chiesto falsificando la mia firma, e non esiste modo di uscirne. Perché sapete, i moduli ci sono anche, e basterebbe trascorrere cinque o sei ore compilandoli, ma a me non potrebbe bastare: sì, perché la scaltra società di finanziamento che, fidandosi di un documentaccio compilato male con un domicilio fasullo e una firma improvvisata, ha concesso il prestito al tizio XY perché acquistasse la motocicletta o la piccola auto elettrica adesso perseguita me con telefonate e addirittura visite a casa “perché deve chiudere la pratica”. E la pratica come si deve chiudere? Dovrei essere IO, la vittima, a fornire alla società di finanziamento il nome e cognome del truffatore XY, cosa impossibile perché palese violazione della legge sulla privacy. Il mio avvocato, impassibile e professionale, rifiuta a oltranza di fornire documenti alla società di finanziamento, e so che ha ragione: si deve fare così. Il risultato però è che succede che qualcuno suoni alla mia porta chiedendomi senza troppa gentilezza di risolvere la questione, e il mio cellulare sia sommerso da chiamate a voce sgarbata o palesemente minacciosa. Perché la società di finanziamento, che si è fatta fregare, ora ha deciso di semplificarsi la vita intimidendo me: fuori il nome del truffatore o sparo! Bene, ecco il mio primo racconto kafkiano: sono segnalata al Centro di Sicurezza, con il finanziamento non c’entro ma ne sono stata vittima accertata, ma nessuno può aiutarmi. Diffidate di me, prego.

Il secondo racconto riguarda una bolletta di cinquantaquattro euro che a settembre 2010 ho dimenticato di pagare (a quanto pare hanno fatto bene a segnalarmi al Centro di Sicurezza). Succede, ho perso la bolletta e non l’ho più cercata: mi è ritornata in mente quando ho ricevuto la lettera del recupero crediti, mi sono scusata telefonicamente e ho saldato il dovuto, inviando il fax al numero indicato nella lettera. Tutto a posto, quindi? No, niente è a posto. Perché un centro di recupero crediti che funziona con un call center a tratti inquietante sommerge il mio cellulare di chiamate “per chiudere la pratica”. Non chiedetemi cosa significhi perché ormai non sono debitrice da molto tempo, e se la pratica va chiusa l’affare non è mio. Ho provato ad assumere il tono mansueto dell’agnello, ho tentato con la rabbia o con il gelo di alcune tipiche serate milanesi, ho spiegato che la professione di scrittore e quella di medico sono poco compatibili con trastulli telefonici senza argomento: niente, con la signorina dall’accento straniero proprio non riesco a avere un’intesa. Non riescono a trovare il mio fax, e anche se il pagamento è stato effettuato io sono una persona che è lecito chiamare cinque o sei volte al giorno per un debito che ormai non esiste.

La sintesi delle due avventure è che se sei vittima di una truffa il problema non è scoprire chi ti abbia truffato (anzi, ringrazio i Carabinieri di Opera perché sono stati meravigliosi con me), ma uscire dall’Indice degli Insolventi dove, senza motivo, vieni segnalato, e se per caso dimentichi una bolletta scusarti e pagarla, inviando il fax dove ti dicono, non è sufficiente: c’è qualcosa in più, un segreto che ancora non riesco a svelare. Il quid che manca per ritornare in un quotidiano retto, solvibile e senza il telefono che trilla per chiederti l’impossibile.

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