la comunicazione in oncologia

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La comunicazione scientifica non è una materia di studio, almeno non in modo diffuso e sistematico: è una quasi-disciplina nata dall’evidenza di comunicazioni efficaci, da figure che, dotate di talento naturale e chiarezza limpida nell’eloquio, hanno attirato l’attenzione del pubblico e guadagnato la fiducia di un grande numero di pazienti. Costruendo di conseguenza la propria popolarità e la comunicazione scientifica come “arte”. I grandi comunicatori sono nati prima della presa di coscienza che esista una comunicazione medico-scientifica, hanno plasmato su se stessi il progresso del rapporto medico-paziente: anni fa, quando l’argomento cancro era un orrore da rimuovere e nascondere, la comunicativa dirompente di Umberto Veronesi ha disarticolato l’usanza di tacere il tabù della malattia e della morte e avviato un processo di assoluta rivoluzione i cui risultati si apprezzano forti e chiari ai giorni nostri.

Oggi il principio di base sembra semplice e ovvio. Ai pazienti (o potenziali pazienti) si deve parlare con chiarezza per ottenere l’adesione alle diagnosi preventive e alle cure. Questa consapevolezza, diventata legge, è frutto dell’evoluzione culturale, della presa di coscienza del diritto della persona a decidere per se stessa, ma anche dei risultati straordinari in termini di popolarità e successi scientifici del capostipite della senologia mondiale. Umberto Veronesi ha comunicato la malattia tumorale come “guaribile” e ha, per questo, abbassato il livello di rifiuto e rimozione di fronte all’ipotesi di ammalarsi, conquistando adesioni alle strategie di prevenzione e motivando le donne a una maggiore attenzione a se stesse. “Se posso guarire ho un motivo valido per prendermi cura di me”, il ragionamento è questo: se il tumore non è più (necessariamente) un destino nefasto vale la pena di sottoporsi allo stress degli esami di diagnosi precoce e, in caso di tumore, alle cure proposte dai medici. Vale la pena perché si può guarire. Offrire le informazioni scientifiche insieme alla speranza: è il segreto della Veronesi-comunicazione che, nei decenni, ha trascinato con sé centinaia di medici e creato scuole che, oltre ad approfondire la ricerca in oncologia, hanno insegnato ai professionisti della sanità come rendersi cura del rapporto con i pazienti. Grazie a Veronesi è nata l’oncologia della chiarezza comunicativa, che ha la finalità di informare e raccogliere l’adesione dei pazienti, nel loro stesso interesse.

La sacrosanta tutela dei diritti individuali ha però provocato, come era inevitabile che accadesse, un aumento notevole dei contenziosi con i medici: da pazienti, abbiamo più coscienza di ciò che possiamo chiedere e dovremmo ottenere, e sempre meno timore reverenziale se qualcosa sembra non funzionare. Le cause legali a carico dei medici hanno portato alla nascita di una medicina che si definisce “difensiva”, la cui comunicazione chiara o iper-chiara ha la finalità di preservare il più possibile il medico da grane legali; si descrive minuziosamente al paziente ciò che accade e accadrà ponendo l’accento sui possibili fallimenti, sugli effetti collaterali probabili o improbabili, sulle percentuali di insuccesso. Si evita consapevolmente di generare eccessiva speranza perché timorosi che l’eventuale disintegrarsi di tale speranza possa significare una successiva denuncia-querela.

Se ci si sposta dalla finalità altruistica dell’adesione del paziente alle proposte di diagnosi e terapia e si arriva a una strenua tutela del medico di fronte ai contenziosi, l’approccio comunicativo cambia radicalmente. La traccia di speranza della comunicazione “stile Veronesi” svanisce perché passibile di insuccesso e critica: non tutti i pazienti guariscono, è una realtà, quindi offrire una comunicazione intrisa di speranza è contrario allo spirito della medicina difensiva. In sostanza, in oncologia esistono oggi due metodi di comunicazione, e conseguentemente due gruppi di medici-comunicatori: definiamoli un po’ semplicisticamente i “Veronesiani”, che hanno raccolto lo spirito comunicativo di Umberto Veronesi facendolo proprio e adattandolo ai progressi della ricerca e alle diverse realtà territoriali, e i “non-Veronesiani”, che, al contrario, sembrano scegliere il pessimismo a priori ritenendolo l’unico modo per garantire ai pazienti correttezza (e a se stessi tutela legale). Un gruppo intermedio difficilmente esiste.

“… la medicina difensiva degli ultimi anni rischia di avere l’effetto di una doccia scozzese sulle aspettative di guarigione del paziente. L’informazione, sia sulla diagnosi, sia sulla cura, oggi viene data nel modo più tecnico possibile e all’insegna del pessimismo, soprattutto in ambito oncologico”, dice in un bell’articolo di Franca Porciani lo psichiatra Giovanni Foresti, segretario scientifico del centro milanese di psicoanalisi Cesare Musatti (“Corriere della Sera”, domenica 25 aprile 2010). L’articolo spiega come le aspettative positive e la fiducia abbiano dimostrato scientificamente di avere un effetto sulla probabilità di guarigione di malattie gravi, aprendo di fatto la strada alla discussione: accertata la necessità assoluta di comunicazione chiara e onesta tra medico e paziente, quale finalità principale dobbiamo considerare valida? La tutela a priori del medico oppure il coinvolgimento positivo del paziente nella strategia di diagnosi e terapia, infondendo maggiore speranza e prendendosi qualche rischio in caso di fallimento? E questo rischio in più legato alla speranza che, a quanto pare, contribuisce alla cura non dovrebbe essere preso in considerazione maggiore nelle cause legali, e vissuto come una premura necessaria alla buona riuscita delle terapie e non un atteggiamento colpevolmente semplicistico da parte del medico? In più, avendo compreso che la strada aperta da Umberto Veronesi e pochi altri eccellenti comunicatori ha portato a sottolineare l’importanza dell’informazione alla popolazione, è possibile ipotizzare che la comunicazione scientifica diventi una disciplina obbligatoria nella formazione dei medici, con regole che non lascino troppo spazio alla personalizzazione (positiva o negativa)? Se possiamo curare anche con la comunicazione, e salvare vite grazie all’adesione alle campagne di diagnosi precoce, perché non formare comunicatori professionisti nell’ambito delle discipline scientifiche?  Perché, Veronesiani oppure no, se non abbiamo il talento innato della comunicazione possiamo comunque imparare in modo scientifico e non velleitario a dare il meglio a chi si aspetta da noi la verità, e un pizzico (e anche di più) di concreta speranza.

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Showing 5 comments
  • Paolo

    Notevole. Un insegnamento in comunicazione scientifica, o un trattato? Dovresti insegnare questa comunicazione alle università, e scrivere un saggio o un manuale.

  • MariaGiovanna Luini

    Partecipare a un’iniziativa tipo scuola o master in comunicazione mi piacerebbe molto. Il master di senologia di San Marino mi ha proposto una docenza su questo. Comunque l’argomento mi piace ed e’ secondo me importante

  • Silvia Delaj

    Partiamo da un presupposto. Il medico e il paziente sono due persone.
    Queste due persone hanno paura una dell’altra.
    Il paziente che il medico sbagli diagnosi, che faccia un intervento inutile … il medico che il paziente possa usare le sue parole (mal capite?) contro di lui, o forse anche di sbagliare con conseguente denuncia …
    Ma sta di fatto che, messi di fronte, entrambi stanno sulle difensive. Il che blocca la comunicazione.
    Se questo stare in difesa si rompe, si crea la comunicazione. E, di conseguenza, un rapporto.
    Ovviamente, non può essere un rapporto paritario. Il paziente è in stato di dipendenza dal medico.
    (Qualcosa di simile c’è nel rapporto insegnante/allievi. Ma anche qui, se cade il blocco dell’essere entrambi in difesa, la comunicazione avviene.)
    Una volta costruiti mattone per mattone, i rapporti vanno tutelati.
    Possono rompersi. E si vive un tradimento. Si è ribloccata la comunicazione. Per paura dell’altro.
    Si scappa in difesa, e allora si denuncia il medico.
    Ma si vede, quando un medico parla o agisce, se lo fa per me o per se stesso.
    E se un medico sbaglia, ma aveva fatto per me, non posso denunciarlo.
    E’ questione di logica, di intelligenza, di bontà, e di verità.

    Silvia Delaj

  • MariaGiovanna Luini

    Vorrei commentare. E’ difficile per tante ragioni.
    Sono d’accordo totalmente nella lettura-definizione del rapporto medico-paziente. E’ il quadro più lucido nella sintesi perfetta che abbia sentito e fatto mio interiormente.
    La parte finale di questo intervento, Silvia, mi colpisce molto. L’emotivita ma anche la ragione.

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