la pentola bolle, con un Angelo che parla

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La pentola bolle. Ma no, non è la pentola a bollire: è la zuppa di legumi (cereali e verdura, sono legumi?) che ho lasciato ammollare per ore, poi l’ho lavata e sciacquata e ho rimpianto di non poterla strizzare. Chissà perché, quando strizzo qualcosa e vedo cadere l’acqua e giudico se sia limpida o meno ho la sensazione di avere pulito, pulito sul serio. Altrimenti no. Mi piace anche restare ferma, intontita e partecipe, a osservare i giri veloci della lavatrice, e la schiuma che diventa grigia poi bianca poi si perde nel nitore limpido dello scarico. Tengo le mascelle strette, i pugni chiusi, mi chino e seguo la pulizia dei vestiti che ho infilato dentro, e il detersivo e l’ammorbidente con il profumo dei fiori. Amo pulire, tirare via lo sporco. Comunque ho versato i pallottolini di cereali e verdura nella pentola, ho aggiunto acqua, sale e olio di oliva (con una spruzzata di germe di grano) e acceso il fuoco. E’ la zuppa che bolle, non la pentola. Mi piace la zuppa che solidifica dopo qualche ora. Ne mangio una prima porzione (abbondante) quando la vedo pronta e calda, poi lascio lì sul fornello e attendo, golosa. Raffredda e diventa solida, assorbe l’acqua e la spezzo a cucchiaiate, me ne riempio la bocca, non sono felice finché non l’ho finita tutta. Il tempo crea perfezione. Che il tempo esista è un’opinione, ma qualunque cosa sia, tempo o meno, ha il dono di solidificare la zuppa di cereali e stemperare i dolori: solo per queste due cose so di amarlo. Lo amo meno quando tocca aspettare, quando sembra rallentare o accelerare a piacimento tirandomi via dalla gioia o rendendo i sospiri troppo lunghi per la mia impazienza.

Mi sono seduta al computer con la testa semivuota, rilassata abbastanza da sentire la scrittura vicina. L’Angelo che ho intravisto a occhio socchiusi, nella meditazione, ha spinto verso di me aria fresca e profumo di incenso, ma non ha detto quale sia il senso della mia vita. O forse ha sorriso e io non l’ho capito. Ha voluto che allungassi una mano verso la borsa e stringessi la BIC, poi quando ho tentato di scrivere ha detto che non era necessario. Sto facendo ciò che devo, lo faccio già. Non ho sentieri da scavare o rivoluzioni da compiere, ho solo da accettare. Capire e accettare, che non è sempre la stessa cosa. Si può capire e non accettare, succede anche a me quando ciò che comprendo fa male o è scomodo. Poche persone sono pigre quanto me. Ci ho messo anni a ammettere la pigrizia. Curiosità e pigrizia sono caratteristiche tanto mie che le rifiutavo. Mi sono sempre nutrita di curiosità e pigrizia, ma affermavo il contrario, quasi fossero vergogne o diminuzioni orribili della mia superiore capacità di vivere. E’ stato perché mi hanno mandata a scuola dalle suore, le Dame Inglesi: nel contratto hanno la clausola della vergogna verso peccati come la curiosità, e la pigrizia. Peggio la curiosità, comunque, perché ti spinge e origliare, e ficcare le pupille dove non dovresti. Cose che ho sempre fatto, punendomi poi come se uccidessi qualcuno. Ma le suore mi hanno anche insegnato cose belle, e me le ricordo con amore. La mia capacità di vivere, dicevo: meriterebbe una discussione a parte perché sono abilissima a cavarmela, a sopravvivere e tirarmi fuori dal caos, ma non sono certa che questo lato di me possa essere definito capacità di vivere. Ma non divago, non troppo. Mi sono seduta al computer e ho aperto un piccolo pacco crocchiante di aggeggini mangerecci al kamut: non riesco ancora a dare loro un nome, tra soya e kamut e vegetali sparsi sono tanto trasecolata dai miei cambiamenti da dimenticare le basi della lingua italiana. Aggeggini, quei cosi arrotolati grossi un pollice e lunghi un tot. Li ho tirati fuori uno a uno e li ho mangiati entro le prime dieci righe, non mi smentisco. Divoro in fretta quasi senza masticare: cambio qualità del cibo, ma il bisogno di ingoiare e riempire un buco impossibile da raggiungere esiste ancora. Insomma. Mangio senza carne né pesce, ma mi sento autorizzata a nutrirmi ogni ora: dovrei tarare le licenze che mi concedo. Ci penserò. Ho iniziato a battere sui tasti con la voce dell’Angelo nelle orecchie, nei remoti ma vividi meandri di me stessa. Sto già facendo ciò che la mia nascita vuole. L’Angelo mi fa stringere la BIC e non vuole che trascriva i nostri colloqui, gli scambi che a fatica raggiungo perché la mente non riesce a fermarsi e a trovare la concentrazione. Stringo la BIC, l’indice pulsa e si scalda quando la tocco, ma non traccio segni blu quando parlo con l’Angelo; perchè so che la scrittura è altro. E’ questa, questa di adesso.

La pentola bolle, la zuppa nella pentola anche. Il kamut negli aggeggini nuota con circonvoluzioni acide nel mio stomaco. A destra, fuori dalla portafinestra, la stazione metereologica bianca appesa sul balcone gira veloce, il vento gioca come con una giostra. Mi ricorda film americani entrati nell’immaginario della mia formazione occidentale, con le distese di niente e una porta che sbatte, e un esperimento atomico colato nel deserto e i cactus che sospirano a ogni radiazione che ricevono sulla testa. La pianta che assomiglia a una palma ha sofferto, è sul balcone accanto alla stazione meteo e noto che per lei l’inverno è stato duro: vedo increspatura gialle e secche, disidratate, nel verde pallido; la accarezzerò al sole appena avrò finito con questo pezzo che ha bisogno di sgranarsi dalle dita. E c’è un ulivo, invece, fuori dalla camera da letto: ogni anno credo che morirà, ne celebro triste la perdita e mi sento in colpa, eppure vive. Le prime foglie spuntano a gennaio, timide ma irresistibili, e robuste abbastanza da non andarsene. Dalla base, vengono su dai rametti che avevo sottovalutato e lasciato là, senza potarli: crescono e mi dicono che sono più forti, che la loro energia va oltre la mia incapacità di prendermi cura delle piante che metto in casa. Vive, sguscia dalla terra e scrolla i dolori del gelo, dei mesi grigi che a Milano sono più grigi ancora, e sorride. Un ulivo che a primavera rinasce, a Milano.

Devo andare a controllare la zuppa nella pentola. Sento il suono del telefono cellulare, qualche sms aspetta. Cammino scalza e mi circondo di fiamme viola.

Ritornerò.

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Showing 5 comments
  • Lorenza Caravelli

    Il tempo, la pigrizia, la curiosità, la scrittura. La palma e l’ulivo, il tuo ulivo.
    Finchè ti circondi fiamme viola e cammini scalza va tutto bene. E’ bellissimo.

  • alessandra

    Bello, scrivi proprio bene!

  • Viandante

    Fiamme viola… Secret knowledge. Molto molto bello. Namaste.

  • MariaGiovanna Luini

    grazie, amici! Namaste

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