riflessioni di un’insonne, nel secondo tempo della vita
Esiste qualcosa meglio della notte? Fatico a tirarmi fuori dalle coperte quando il sonno evapora dopo due ore di ottundimento e mi lascia sola davanti allo schermo della televisione che ripete immagini e non riesce a coinvolgermi. La notte, queste notte, ha energia scarsa: ho letto da qualche parte che tra le tre e le quattro del mattino il prana, l’energia appunto, sia a livelli minimi. Siamo come deve essere, a me la notte fa paura. Perché è un buco che sembra non arrivare al mattino, un contenitore che spesso riempio con l’impossibilità di riprendere sonno. Allora scrivo, ho pensato. L’ho pensato questa volta, rottura di una tradizione di noia e sopportazione dell’insonnia. In fondo, la mia cecità mi stanca: non riesco a vedere che sono nata per questo, e se lo vedo perdo l’abitudine a ricordarmene. Se ho un tempo che implode, la scrittura restituisce senso. Che la mancanza di sonno sia l’opportunità?
Non trovo riflessioni sagge o opinionismo facile nelle ore buie che non mi permettono di dormire. Guardo i social network, metto qualche “mi piace” e confronto il mio vuoto con le affermazioni sapienti, oppure scontate (bisogna ammetterlo), di chi sa e riesce, di chi fa opinione. Perché nel mondo enorme e piccolo come una bottega di paese del social network fare opinione è semplice. Puoi crearti una corte di adoratori e detrattori e sentirti qualcuno. Fai lavorare i neuroni o lavori di intuizione, ti illumini quando trovi l’idea e piazzi le frasi nello status. Il segreto è mescolare l’ovvio all’ironia. Che poi è vero che chi pensa prima a una cosa ovvia è creativo, ci credo sul serio: sono bravi tutti, dopo, il punto è pensarci prima, quando nessuno ancora ha verbalizzato. Insomma, non mi sento opinionista. Questa notte mi sento ciò che sono, e non è molto. È scrittura, quella sì è tanta. E’ amore che esprimo, e qui mi fermo senza commenti: il mio amore, il mio modo di amare. Che mistero per gli altri. E per me.
Un evento mi ha tolto il sonno. Una discussione che a un certo punto ha perso i contorni, e il filo del discorso. Osservavo il volto che amo e capivo che avrei potuto dire niente o tutto, non aveva più rilevanza. Ci eravamo infilati nella negatività di un’accusa reciproca che faceva di tutto un niente, sminuiva e offendeva, ribaltava pezzi di verità. Certo, la verità sa ribaltarsi proprio perché non è la stessa ogni giorno, ogni ora. Ma insomma, si ha bisogno di alcuni punti fermi, di certezze che permettono di proseguire senza sgretolarsi. E queste certezze sono mancate, sciolte nella rabbia e nelle recriminazioni. “Ti amo”, ho detto. “Non ha la minima importanza”, è stata la risposta. E so che non è vero, non è così, ma la discussione, le ore, la stanchezza, la voglia di andarsene e lasciare tutto come stava hanno reso cattivo l’impasto di noi.
Avete provato a recriminare? Non con leggerezza, recriminare sul serio. Beh, a me succede e non mi piace. Non mi piace quando chi amo recrimina, anche. Lo trovo una frantumazione della complicità. Complicità. Non ne ho avuta, oggi. Se proprio devo fissare l’attenzione sulle percentuali, ho avuto torto al novanta per cento ma il dieci per cento che è rimasto, quello che a me non apparteneva, è stato usato fino all’ultima goccia. L’ultima goccia di me, della fiducia che riponevo e della forza fisica e mentale necessaria per tenere in piedi una relazione. Qualche riga più in alto ho detto che si è perso il filo, e lo ripeto adesso. In un labirinto che non ha aiutato la confidenza e l’amore le strade si sono separate, le voci hanno superato i muri ma non hanno fatto altro che dividere, ancora e ancora. Abbiamo camminato a tentoni e ogni svolta ci accompagnava più lontani, più soli. Dopo, molto dopo, ho spento i telefoni e mi sono messa a letto. Gocce dolciastre per ritrovare una calma fittizia e il sonno. E’ durato pochissimo, due ore scarse, poi gli occhi si sono spalancati e ho ricordato. Il momento del risveglio, e l’ora non ha importanza, è la resa dei conti: sospesa per alcuni secondi, aspetto che i pensieri mi investano. E’ meraviglioso rimanere lì, nei secondi di oblio, perché esistono tutte le possibilità: come cellule staminali indifferenziate che possono diventare qualsiasi cosa, anche i secondi del risveglio hanno il medesimo valore. Ogni cosa, bellissima o orrenda, può accadere. Poi ricordo, e so. Se il giorno precedente ha avuto il dolore, e accade spesso alla gente tormentata come me, un peso orrendo cade e schiaccia. E non si vede più la strada.
Questa notte il risveglio è stato tanto precoce da rendere ridicolo parlare di sonno. Mi è venuto in mente, e non so perché, che in “Cosa fanno le tue mani” ho lasciato che Anna dormisse. Non credo di averla resa insonne. E’ strano. Una come lei, una come me: la prima cosa che succede ai nostri tormenti è che tolgano il sonno. Invece lei dormiva, o almeno credo. Luca le dava sesso, strazio e prigionia e lei dormiva. Anche se. Il fatto di non avere scritto la sua insonnia non significa che non ci fosse. Silvia (“Le parole del buio”) si aggrappava all’antidepressivo e scriveva sgretolandosi di calli le dita. Lucia, in “Una storia ai delfini”, dormiva pochissimo: anche questa è certezza che non penso di avere scritto, la sento e basta. Ormai conosco Lucia, ci siamo frequentate per qualche anno e l’ho vista dipinta nei racconti dei lettori, l’ho anche fatta rivivere in una storia recente. Dorme poco, ma il porto è un luogo dove l’insonnia non è un problema. La solitudine silenziosa del porto infila nella mente pensieri diversi. Il silenzio del porto è assoluto anche se pieno di rumori piccoli cui fai l’abitudine, e li consideri normali. Ti cullano, quasi, ammesso che le persone come me amino lasciarsi cullare.
Lasciarsi amare. Altro capitolo di un libro complicato. Non so lasciarmi amare. E sono assoluta, troppo per i miei gusti. Chi lo dice che non so lasciarmi amare? Chi dice che sia vero sempre, in ogni situazione? E’ solo che incontro, scelgo amori che non possono amarmi completamente. Come tanti scrittori, difendo la mia solitudine al prezzo della sofferenza.
Non so cosa farò domani, non so come mi sentirò. Ho una storia da rifinire, una persona da incontrare. Dentro, la certezza che molto stia cambiando, e che l’acqua nell’otre della mia psiche stia tracimando. Succede ai quarantenni. Rido riascoltando ossessiva la canzone di Max Pezzali sul secondo tempo della vita (Max, sei un genio), o sghignazzato di banalità condivisa quando leggo che Raoul Bova si sente nella fase nuova dell’esistenza, e adesso non permette più agli altri di giudicarlo. Raoul, hai tutta la mia comprensione: vai così. Cosa succede ai quarantenni? Una carta del cielo, con il passaggio dei pianeti, ha disegnato questi mesi, questi anni: periodo unico per me, il passaggio che una sola volta si verifica, e per qualcuno mai. Che ci creda oppure no, sento che è vero. Pianeti o maree, psiche o energia, sono nel mezzo pieno di una rivoluzione. Non ho mai, mai, avuto così spesso la tentazione di morire, e non ho mai, mai, avuto così spesso la certezza che basti aspettare. Quando si perde il senso o lo si ficca in mano agli altri, che significa comunque non averlo, il cambiamento arriva. E’ il mio secondo tempo, e ancora non sto giocando a mani libere: la paura di restare sola è una caratteristica che mi rende più lenta degli altri, ma ci arrivo. Oh, se ci arrivo. Forse questa notte, con la tristezza infinita per una discussione che ha rotto tanto (tutto?) di un amore, vedo più chiaro di sempre. Vedo ciò che non posso, non voglio più avere. Cominciamo da qui.
Sia Luce a Voi.
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