il rumore di un libro al mattino

 In Blog, Racconti, Racconti Erotici

Questo è un racconto che risale a qualche anno fa. Pubblicato nel sito “Caffè storico letterario” nel “cassetto di MariaGiovanna”, mi è capitato sotto gli occhi questa sera. Ho pensato di soffiare sulle parole e restituire vita qui, nel mio blog. Senza interferire con lo stile, anche se la tentazione c’è stata, qua e là…

E’ salita a Firenze. Me ne sono accorto perché è riuscita a svegliarmi: dormivo da almeno un’ora e lei si è avvicinata al mio posto e ha sbattuto con malagrazia un libro sul piccolo tavolino che dovrebbe separarci. Ho aperto gli occhi e notato i suoi goffi tentativi di farsi aiutare per sistemare la valigia sopra la nostra testa: ho finto di niente, più per l’irritazione di essere stato svegliato che per mancanza di galanteria. Sono gentile, di solito. Molto gentile. Lei ha guardato in giro e ha visto un uomo in giacca scura, che si è alzato e l’ha aiutata a piazzare l’enorme borsa al suo posto.

Si è seduta, poi. Ha afferrato il libro senza aprirlo e mi ha osservato nascosta dietro un paio di occhiali da sole dozzinali, di quelli che usano quasi tutte le donne: lenti ampie e griffate, poca sostanza e molta apparenza. Ma sono cattivo, oggi: sarà la sveglia alle quattro e mezza, sarà la cena di ieri sera che non ho digerito, sarà questo viaggio inutile stupido completamente fuori senso, ma ho voglia di prendermela con il mondo. Senza pietà. Senza dare spazio a sensi di colpa.

Comunque.

Questa donna di fronte a me ha i capelli castani con qualche stria bionda inventata da un parrucchiere poco creativo, indossa un cardigan marroncino con qualche stupido strass e un orologio d’oro. Di quelli che potrebbero anche piacermi, se non fosse oggi se non fossimo qui e se non si trattasse di lei. Che mi ha svegliato lanciando un libro con un’irruenza che una donna non dovrebbe conoscere. Tenta di leggere, adesso, ma ha nelle orecchie gli auricolari di un piccolo aggeggio che squilla spara eiacula musica a volume spaventoso: come possa leggere e capire quel giallo da due soldi che ha in mano è incomprensibile.

Devo bere un caffè. Sta passando il baracchino che scampanella, ho visto che per un euro di può avere un caffè stitico in tazza piccola: l’uomo me lo porge ma prima afferra l’euro. Bevo. Così forse mi passa la nausea. Oppure dimentico per qualche istante la sveglia di questa mattina e la stazione vuota con due poliziotti e un cane che mi ha annusato, il treno pieno di zanzare, la donna lamentosa dietro di me che non ha stampato il biglietto e pretendeva di avere ragione con il controllore, e lei. Lei qui davanti, con la faccia da stronza e il coraggio di svegliarmi sbattendo un libro sul tavolino.

Quest’arpia con la musica a palla nelle orecchie mi ricorda la ragazza che avevo al liceo. Si chiamava Clara e i suoi genitori erano morti in un incidente stradale: la aiutavano tutti, perfino i professori, perché era orfana. Ma io la conoscevo bene. Perché la scopavo. Era cattiva, cattiva dentro, e la morte dei genitori non c’entrava affatto: doveva essere il DNA, quell’insieme di geni che non si sa bene da dove venga a renderla tanto sgradevole. Se la prendeva con il mondo e sembrava trarre piacere dal tormentare provocare stuzzicare offendere la sensibilità di chi aveva la sfortuna di incrociarla. A me piaceva perché allargava le gambe senza fare storie e non disdegnava la mia creatività nelle pratiche sessuali più estreme. Le piaceva, anzi, che le chiedessi di provare cose nuove. Per un po’ feci finta di non notare la sua assoluta mancanza di grazia, la maligna bestialità, poi mi stancai: le posizioni sessuali erano diventate sempre le stesse e non mi divertivo più.

La donna qui davanti ha chiuso il libro. Guarda impettita, con una ruga antipatica ai lati della bocca, una tizia che legge qualcosa. La giudica, sono sicuro: esistono persone che giudicano all’istante, come se fossero convinte di essere nate per quello. Non mi piacerebbe vivere con una donna così, e non è solo perché non ho mai vissuto con una donna: il problema è che ho in mente il modello preciso di femmina che vorrei, e non riesco a trovarne uno in carne e ossa. La dolcezza, quella pulizia che solo una donna può avere sono utopie. Forse. In ogni caso, non vivrei mai con la donna che adesso mi sta fissando.

–         Che cosa legge?

Mi ha parlato. Ha aperto la bocca all’improvviso e ha emesso suoni, e ora aspetta che risponda.

–         La vita di una poetessa russa

Ho dovuto risponderle. So che non capirà: a malapena sa che cosa sia una poesia, si vede dagli occhi porcini e dalle sopracciglia arcuate. Infatti mi fissa senza espressione.

–         Chi è?

Stiamo scivolando nel dramma. Nella discussione inutile paradossale sterile. Vuole riempire il vuoto della sua testa con qualche minuto di chiacchiere.

–         Una poetessa morta suicida

Il suo telefono squilla. Meno male. Appoggia all’orecchio un aggeggio colore della sabbia e dell’oro da mercato arabo, dal quale pende un’insulsa treccina marrone, e pigola.

–         Ciao, Anna. Sono in treno. Parlavo di poesia con un signore

“Un signore che hai svegliato sbattendo un libro giallo da dementi sul tavolino, un signore che ti trova odiosa e non vuole parlare con te. E ha capito benissimo che tu di poesia sai al massimo la litania che ti hanno insegnato all’asilo per la festa della mamma”. Sì, sono nervoso, ma non posso farne a meno. Non sopporto che si invada la mia vita come sta facendo questa donna.

–         No, non so come si chiami

“Mi chiamo Sergio ma la cosa non ti riguarda, e se me lo chiederai ti dirò che mi chiamo Mario”.

–         Come si chiama?

Banale. Mi sorride come se fossimo complici.

–         Mario

–         Si chiama Mario. Sì, esistono ancora uomini con un nome così

Fantastico. Vorrei che in questo vagone ci fosse un Mario incazzoso quanto lo sono io: mi piacerebbe vederlo alzarsi e schiaffeggiare questa cretina che squittisce dentro un cellulare improbabile.

–         Non so, ora chiedo. Lei scende a Roma?

Non posso mentire. O Roma o Napoli, non si sbaglia.

–         Sì

–         Sì, scende a Roma. Bé, ora vado. Chiudo, la linea va e viene e non sento ciò che dici

Clic. Mi guarda con gli occhiali da sole da maliarda.

–         Va a lavorare, a Roma?

“No, ogni mattina mi alzo alle quattro e mezza e prendo questo treno del cazzo perché mi diverto”.

–         Sì

–         Peccato, avremmo potuto bere qualcosa insieme

Bere qualcosa insieme. E’ peggio di quanto credessi. E’ una donna che non esita a proporre una bevuta al primo uomo che incontra in treno. Dopo averlo sgarbatamente svegliato con libri sbattuti, rintronato con musica vomitevole e disturbato nell’unico tentativo di leggere qualcosa.

–         Magari un’altra volta

Ho cercato di essere neutro. Non dico gentile, ma neutro. Lei sorride.

–         Non ha proprio tempo per un caffè?

I miei occhi cercano aiuto. Siamo a Roma, ormai: lo capisco dalle quattro case con le scritte sui muri e dai cavalcavia annodati come serpenti.

–         Va bene

Avrei voluto evitare, questa volta. E’ già successo e so come è andata. Devo lasciare stare le donne come lei: sono cattive vuote stupide e se scopano lo fanno con astio, quasi volessero dimostrarti che sei un porco. Come tutti. Però il “Va bene” mi è scappato, e non posso più tirarmi indietro.

–         Benissimo!

Il treno è in stazione. Scendiamo senza parlare.

–         Abito qui vicino, posso invitarla a casa mia?

Ci penso solo due secondi: non fa differenza ormai, ho messo il mio libro in borsa e deciso di non pensare. Di non notare la faccia arcigna di questa donna che mi provoca e non si rende conto.

–         D’accordo

La casa è piccola e buia: l’odore di chiuso soffoca la gola, lei apre la finestra e si appoggia al davanzale.

–         Ho visto come mi guardavi

Annuisco. Tanto sarebbe inutile spiegare.

–         So che mi vuoi

Le altre volte. Le ho tutte davanti come scene di un film in bianco e nero. Le mani prudono, vorrei uscire. Sono ancora in tempo.

Si avvicina.

–         Sei uno di poche parole. Mi piacciono gli uomini come te, sembrano sempre un po’ cattivi

Cattivo. No, non sono cattivo. Io. Sei tu a rendere tutto difficile. Allontanati. Le altre volte non sono riuscito a scappare, prima. Solo dopo. Oggi voglio andare via. E’ meglio anche per te.

–         Non essere ritroso. Mi piaci. Forza, sii coraggioso

Mi tocca. Ha messo la mano sui miei pantaloni.

–         Eddai

Non capisce, non riesce proprio a capire. Muove la mano e io mi sto eccitando. Adesso che la guardo da vicino vedo che è vecchia, ha gli occhi freddi e non conosce dolcezza. Sono sicuro che faccia la stessa cosa con tutti gli uomini che incontra. Tutti. Le mie mani prudono di più, sono sul suo seno adesso.

–         Bravo, così

Sospira e chiude gli occhi. Non posso fermarmi, non ci riesco più. Ma è colpa sua. Solo sua. Ero in treno e dormivo, mi ha svegliato con un libro giallo sbattuto sul tavolino, ha voluto parlare e portarmi a casa sua. Ha messo la mano lì e ora mi bacia. E’ lei che insiste. E non posso fermarmi, adesso.

–         Il letto è di qua

Mi prende per mano, andiamo in una camera ancora più buia. Sposta il copriletto che sa di polvere: sono sicuro che dovrò lavarmi molto bene. Non sopporto la sporcizia, mi si attacca al corpo e non se ne va più. Mi sdraio accanto a lei e la spoglio: sembra contenta mentre lo faccio. Sembrano tutte contente. Sempre.

–         Bravo

Sospira. Le mie mani le piacciono.

–         Continua

Non posso continuare. E’ tutto il corpo a prudere adesso. Sarà la sporcizia di questo posto, sarà lei che mi disgusta sarà che mi sono svegliato presto, devo finire. Finire subito. Per andare via.

Apre le gambe e mi accoglie. Sembra avere capito come andrà a finire. Sospira ancora e ancora mentre lo faccio.

Poi.

Sono le mani, come le altre volte. Non le posso comandare. Si avvicinano al suo collo e lo sfiorano. Lo afferrano come per caso.

E stringono. Stringono. Stringono ancora.

Diventa blu: i suoi occhi mi fissano stupiti, li vedo attraverso la nebbia della stanza. Mi guardano tutte così quando le mie mani stringono forte: forse si chiedono perché. Eppure dovrebbero saperlo: si offrono al primo che arriva, lo trattano senza dolcezza poi chiedono perché. E’ un nonsenso.

Stringo.

Non respira più. Devo chiuderle gli occhi. E lavarmi, subito. Per andare via.

Non voglio pensare al suo viso bovino e al libro che ha sbattuto sul tavolino, agli occhiali da sole dozzinali e a questa casa buia con la puzza di chiuso.

Spero abbia tanto sapone in bagno. C’è molta polvere qui.

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Showing 3 comments
  • Bianca 2007

    In questo racconto sei veramente forte!
    Perchè donne così ci sono,purtroppo,e,comprensibili sono gli istinti anche “omicidi”.Perlomeno quelli pensati.Mirka

  • MariaGiovanna Luini

    temo sia vero

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