dal porto, diario spezzato

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L’ultima barca sul pontile si chiama “Croce del sud”. Mi chiedo, guardandola, se il mio ricordo dei proprietari corrisponda alla verità. La verità intesa come corrispondenza del ricordo con ciò che effettivamente è in questa dimensione della vita. Perché se corrisponde significa che qualcosa di strano accade. Nei miei pensieri, in fondo al pontile la barca a vela piccola è di un uomo giovanile e la sua compagna bionda, magra e sempre abbronzata. Fanno parte del porto, mai che siano stati assenti nei miei anni spesi sulla barca bianca al P70. Eppure da un po’ di tempo “Croce del sud” è sola. Mesi fa Claudio, un avvocato scrittore con il motoscafo qui a fianco, ha detto a qualcuno “Hanno cambiato pontile”, e non ho capito (né ho voluto chiedere) se si riferisse a loro. L’aura scintillante dei capelli argento dell’uomo giovanile e la linea invidiabile anche se secca della compagna bionda hanno abbandonato il piccolo borgo P e raggiunto un altro microcosmo portuale, chissà dove. Perché un pontile è un borgo, potrei raccontarvi chi ha la televisione e la domenica si allunga e segue le puntate del “Tenente Colombo” e chi invece cambia fidanzata di fine settimana in fine settimana. E loro potrebbero dirvi di me: vi racconterebbero che il mio umore è mutevole, capita che parli anche con le cime tirate e i parabordi e succede invece che sia scostante, brusca, facile alla rabbia. Potrebbero spifferare che ingrasso e dimagrisco, detesto chi non rispetta le regole, chi sorpassa troppo vicino e solleva onde che rovesciano tutto e mi infastidisce parlare se sto scrivendo sprofondata a poppa. I vicini della “Croce del sud” mi seguivano con gli occhi, erano presenze mute ma certe. Se ne sono andati, quindi. Ma la “Croce del sud”? Non è che si trasferiscano solo gli armatori, dovrebbe spostarsi anche la barca. Invece è là, sola e beccheggiante mentre scrivo e tiro su la testa per osservarla.

Ho mandato giù spicchi di limone prima di appoggiare il computer alle gambe. Due, tre, quattro tagli e in gola gli spicchi, occhi strizzati e la lingua ancora brucia. Una tortura autoinflitta nell’ozio del cielo pesante di nuvole sfiocchettate e dense. Sono grigie, qualcuna è pallida e bianca; lontano, sopra Portofino, vira un Canadair. Nella passeggiata fino al margine del porto ho messo insieme silenzio e pensieri, ho fatto fatica a rispondere a qualche sms che chiedeva di definire come mi sentissi. In una danza sconnessa e necessaria, credo. Più avanti, molto più avanti di prima, ma in un vicolo di passaggio. E vira ancora il Canadair, non capisco perché. Non sta cercando acqua. Mi fa pensare all’elicottero che ieri a Como è sceso all’imboccatura dell’autostrada: l’ho visto venire giù, giallo e rosso, poco più avanti aspettava un’ambulanza. Ho immaginato, nella mia banalità, che l’elicottero scaricasse e l’ambulanza fosse destinata a schizzare via verso l’ospedale. Non so se sia stato così, sono passata avanti e mi sono infilata nel traffico verso Milano. Non amo le ambulanze, e non solo perché evocano malattie e dolore: avevo venti anni e l’ambulanza dove ero volontaria uscì di strada e centrò un muro. La sirena non è il rumore più intrigante rimasto nelle orecchie della mia memoria.

Capisco poco di ciò che accade, so che devo aspettare. Più del solito, più di sempre. So anche che sono così cambiata che dovrei concedere al mondo un po’ di tregua. Se voglio che qualcuno rimanga devo recuperare indulgenza e comprensione nei miei accessi infiammati di impazienza. L’ultimo viaggio a Roma mi ha deliziata e ricostituita, peccato che mi sia venuto in mente di accennarne in un social network. Così, a mio marito è stato chiesto perché fossi là e cosa stessi facendo (quale motivo spinge una moglie a non essere sempre con suo marito?). Per un’anima come la mia metabolizzare un’idiozia è difficile. Allora smetto di dire, sono affari miei. Ma è un peccato, peccato che si debba tacere sulla semplicità di un viaggio (sono sempre in viaggio, se taccio su questo mutilo la mia vita) per evitare di suscitare la curiosità altrui. Le insinuazioni altrui, diamo loro il nome che meritano. Ecco, ora comprendo che ancora non sono arrivata là dove è destino. Perché là, al traguardo della donna che sono, esploderò in una risata e ignorerò ogni stupidità che non sia la mia. La libertà che è aria e nutrimento non si discute; libertà mia, libertà di chi amo e libertà di chi non conosco. La libertà di scrivere ciò che invento, sogno, vivo e la libertà di assomigliare al tizio con l’aspetto di un grosso e sensuale felino che tanti anni fa in uno spot si limitava a dire: “Sono affari miei”.

Di recente ho letto una frase interessante, non so più dove. La saggezza dissemina sillabe che si incollano in testa poi ritornano. Più o meno la frase diceva che se di un amore si parla spesso con le amiche, se è l’argomento principale, allora qualcosa non va. Ci penso adesso e aumenta il beccheggio, si è alzato un vento più fresco e il gabbiano maschio che stava sulla massicciata vola sopra la mia testa. La barca dei sub esce: un uomo solo siede con la muta, le braccia incrociate nell’attesa dell’immersione. E ritorniamo alla frase. Se un amore è l’argomento dominante delle discussioni con le amiche i casi sono due: qualcosa non va perché quell’amore è vissuto senza equilibrio oppure con le amiche in questione non esistono altri argomenti. Si tratta di scegliere le relazioni che sentiamo giuste, nell’amore e nell’amicizia. Altra riflessione vomitata fuori nella passeggiata portuale, più o meno all’altezza di Lupacante (la barca verde di Harry Potter, ma questa non ve la spiego).

E’ bello sapere che ho scritto parole senza dire granché. Quando sono seduta qui a poppa, con il tempo brusco e plumbeo senza il sole, intuisco l’energia delle parole da scrivere e non importa cosa abbiano da raccontare. Concludo con una constatazione. Gli uomini che mi interessano sono sensibili al clima: se piove e il sole si nasconde diventano eremiti. E’ triste per loro, ma anche per me. Sarebbe il pomeriggio adatto a una chiacchierata molle e sincera.

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Showing 2 comments
  • Gian Paolo Grattarola
    Rispondi

    Sono d’accordo. Hai messo tanta carne al fuoco. suscitando innumerevoli spunti di riflessione. La libertà è una condizione necessaria per lo sviluppo della creatività artistica. Libertà è rovistare tra le pieghe della vita in cerca di oppor…tunità: il volo radente dei curiosi è l’abito ipocrita di chi non sa scendere in profondità… LIbertà è arrampicarsi coraggiosamente sulla pianta per cogliere i frutti e assaporarli al momento opportuno, e non attendere a bocca aperta ai suoi piedi che cadano quando ormai sono troppo maturi… Buona giornata MariaGiovanna e non rprivarci mai del privilegio di poterti leggere.

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