sordo, cancro, male incurabile: le parole del pudore
Comunicatore scientifico: è una delle qualifiche professionali che mi identificano insieme a scrittrice e medico. La comunicazione scientifica ha molteplici declinazioni: una delle principali per la mia sensibilità è porgere alla gente, alla popolazione generale, i contenuti della medicina e della scienza in modo preciso e comprensibile, concreto quanto possibile, perché il livello culturale medio possa aumentare e si riesca a decidere per se stessi avendo ricevuto gli strumenti utili per conoscere gli argomenti. Non possiamo essere davvero favorevoli o contrari a una certa procedura di terapia o diagnosi se non la conosciamo, è difficile o impossibile parlare di prevenzione o di cure migliori per alcune malattie se le notizie in proposito non ci hanno già raggiunto grazie a parole semplici e chiare, comprensibili per tutti.
La comunicazione riguarda molto la scienza. In apparenza viviamo in una società che desidera approfondire gli argomenti della ricerca, le innovazioni, le applicazioni delle tecnologia e la medicina. Ma la verità è che, grazie allo sviluppo (positivo in assoluto) dei nuovi media, la cultura generale in ambito medico e scientifico è sottoposta a un bombardamento di notizie non sempre basate su riscontri oggettivi che creano un pericoloso e evidente rumore di fondo. In un mezzo di comunicazione come internet esistono dati scientifici dimostrabili e leggende, ipotesi e pregiudizi. Informazione e controinformazione, connotando la controinformazione come danno e non come prezioso valore di critica che potrebbe promuovere l’evoluzione. Internet pubblica e non filtra, è largo e democratico: ogni possibile teoria scientifica o pseudoscientifica può essere comunicata con due o tre nozioni base su come si aprano un blog o un sito o come si intervenga in un forum. In più, l’influenza del comportamento sociale porta ad alcune insensatezze tanto radicate da sfuggire anche ai più attenti.
Pensavo a questo oggi, nel viaggio verso VeDrò 2011. In attesa del lavoro con il gruppo su vocabolario e comunicazione provavo a immaginare cosa avrei detto, quale sarebbe stato il contenuto del mio intervento. Vocabolario, comunicazione e medicina. Poiché i voli di fantasia mi piacciono ma li riservo all’attività di scrittrice, volevo focalizzarmi su pochi concetti reali, evidenti, che stimolassero la discussione. E, complice Bach in sottofondo, mi sono venute in mente due parole che da qualche tempo uso e vedo usare a profusione. Cancro e sordità.
Quando ho realizzato, grazie a Filippo Gatti e Rosella Ottolini, il videoromanzo in LIS (lingua italiana dei segni) ho scoperto che la definizione di “non udenti” non è gradita a chi è colpito da sordità. La sordità, appunto, definisce chi ne soffre come “sordo”, e il pudore degli udenti ha tentato pateticamente di nascondere, mitigare, coprire la gravità dell’handicap trasformando la definizione di “sordo” in “non udente”. Nel corso degli incontri con persone sorde alle presentazioni di “Cosa fanno le tue mani” mi è stato detto che definire un sordo non udente non allevia certo la sua disabilità. E’ vero. Non sei meno sordo se ti definisco non udente; triste dirlo, ma rimani comunque sordo (e la medicina ti definisce sordo, è il termine oggettivo). Eppure il pudore, la ritrosia di fronte all’idea di malattia o di handicap fanno sì che sia inutile spiegare che sia più corretto dire “sordo”: l’interlocutore annuisce, magari ci fa anche un pensiero sopra ma poi continua a stringere le labbra (le rende sottili sottili, quasi a sibilare un tremendo segreto), abbassare la voce e riferirsi ai sordi come non udenti. Più volte sono mi sono immersa in dettagliate digressioni sull’impatto delle parole su chi ha una disabilità, più volte ho raccontato che, nonostante la difficoltà istintiva, è meglio chiamare le cose con il nome loro proprio senza girare intorno al problema: a queste riflessioni trovo adesioni di principio, ma poche conseguenze pratiche. E come se non fossimo più capaci di pronunciare alcune parole, di osservare direttamente le disabilità.
Eppure non ci si perita di chiamare cancro la malattia che ancora uccide tanta gente e crea panico, sconforto, incertezza, dolore. Abbiamo ritrosia con la disabilità e trasformiamo ciechi e sordi in non vedenti e non udenti, ma sbattiamo la parola cancro in faccia a chi ne soffre, intuendo forse ma certo non facendo nostro il concetto di terrore: la parola cancro equivale a morte, al panico dell’incubo peggiore. Ed è una parola non necessaria: la medicina usa “tumore” e (purtroppo) si fa capire benissimo senza ricorrere alle propaggini snodate e maligne dell’immaginario del cancro. Sordo no, cancro sì. Se davvero si vuole alleggerire lo stato di chi non possiede l’udito usando parole diverse che sembrano più leggere, medesima delicata sollecitudine dovrebbe essere riservata a chi si trova a combattere con una malattia tumorale. Il tatto, inteso come attenzione alla sensibilità altrui, dovrebbe spingere a comunicare con attenzione anche nei confronti di chi si confronta con l’idea della morte in modo inatteso, traumatico, tremendamente difficile. Accade nelle conversazioni quotidiane, nei testi giornalistici, durante le trasmissioni televisive, nelle comunicazioni dei professionisti della medicina, perfino nella scelta delle denominazioni per le associazioni che dovrebbero sostenere psicologicamente o fisicamente i malati di tumore: la parola cancro non conosce censura pietosa, è terribile ma vivida, ineliminabile. E incute la sensazione definitiva dell’incurabilità. Perché si fa più in fretta a credere che di tumore si possa guarire, ma di cancro no. Il cancro è il cancro. Non si tratta, credo, di smorzare verità che si intuiscono bene anche se si usa la parola tumore. Si tratta piuttosto di comprendere quanto l’idea di una condanna senza appello possa pregiudicare la collaborazione del paziente nel processo di cura. E si tratta anche di senso comune: a parità di chiarezza, a nessuno fa piacere sentire che la malattia che affligge se stesso o qualcuno molto vicino sia un cancro, brutale e altamente maligno per significato implicito della parola.
Menzione a parte merita l’espressione “male incurabile”. Di frequente è usata quando qualcuno muore e, per ragioni di ignoranza sulle cause precise o falso rispetto per la privacy, nella cronaca si decide di omettere la diagnosi esatta. Allora la malattia diventa incurabile. Il tumore, qualsiasi tumore in ogni persona, è incurabile. Lo stesso vale per le patologie degenerative. La verità è che non esistono malattie incurabili a priori, così come non ve ne sono curabili nel cento per cento dei casi: non è leggenda che sia possibile morire anche per le conseguenze di un banale raffreddore se le condizioni di base sono compromesse. Certo, è evidente che in alcuni casi la malattia non sia effettivamente curabile, cioè non si riesca a debellarla: a posteriori e in quella specifica persona è risultata incurabile, ma generalizzare crea paura. E’ curioso e inquietante che ancora ci si ostini a mantenere l’abitudine lugubre di usare “male incurabile” invece di trovare parole più adatte alle singole circostanze. Perché verba non volant, soprattutto se si è coinvolti direttamente in una situazione difficile di sofferenza. Si parla di male incurabile poi, magari nella pagina successiva, si sparano titoli enfatici ed eccessivi che esaltano la più recente scoperta che salverà dal “cancro” (appunto) milioni di persone. Sentenze implicite di morte e illusioni insieme. Oppure si intervistano attrici, attori che hanno “vinto la loro battaglia”, e ogni volto assurge a speranza che il male sia curabile, che si possa sconfiggere e ritornare sani e giovani e belli e felici. “Provassero loro a sentirsi dire che sono incurabili”: non posso dimenticare una donna che, ridendo, ha alzato le spalle durante un visita con me mentre occhieggiavamo insieme al titolo di un giornale.
Comunicare è anche scegliere quali termini usare. E, forse, applicare il pudore senza eccessi insensati o lacune un po’ crudeli.
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Si mestiere difficile, il vostro. Come pure quello del paziente di fronte alla diagnosi inconfutabile. Giusto stamani leggevo sul New York Times un articolo sul linguaggio militaresco utilizzato per definire il cancro e la “sua battaglia”, altrettanto interessante : http://www.nytimes.com/2011/08/28/opinion/sunday/cancer-fighting-words.html
Cara Giovanna,
GRAZIE
oggi è il mio 43° compleanno e da 1 anno e mezzo, con la mia cura ormonale, dopo una bella mastectomia, cerco di avanzare in questo mondo, in cui ho dovuto familiarizzare con la parola CANCRO.
Porta pazienza, ma i brindisi stasera sono stati molteplici e la mia scrittura non sarà certo fluente!!!
Leggendoti, mi è subito venuta alla mente questa idea: se i portatori di qualsiasi handicap sono definiti “diversamente abili”, noi “CANCERATI” potremmo essere definiti “diversamente viventi”.
Il percorso che mi ha portato sino ad oggi non è stato semplice, soprattutto perchè la presa di coscienza della realtà con cui mi toccava fare i conti non era semplice.
Eppure, a posteriori, sono certa di poter dire che il cancro mi ha regalato la CONSAPEVOLEZZA.
Può sembrare una parola vuota, ma ti garantisco che vivere la quotidianità cercando semplicemente di dare o di cogliere un senso positivo o anche negativo da ciò che ti circonda, non è poca cosa.
Insomma, il cancro ci dia l’occasione di VIVERE DIVERSAMENTE, magari non così a lungo come desidereremmo, ma certamente con più intensità!
Con affetto,
Norma
ANCH’IO NON SONO
per le “bugie pietose” cara e splendida Mariagiovanna.Semmai uso gli occhi per lottare insieme.Sempre che la persona lo desideri o voglia.
Ottimo post ricco di umanità e lucido di consapevolezza per le umane forme di fragilità che alla fine sono le stesse di tutti.Bianca 23007
La parola cancro non è la verità necessaria, ometterla non è affatto bugia pietosa. La verità si può dire anche evitando la CRUDELTA’. Perché usare termini che enfatizzano aspetti negativi e prefigurano tragedie non è ricerca della verità.