saluti e baci dalla terra di mezzo – confessione di una quarantunenne
Giorno uno, Trastevere.
Non ho molto chiara la mezza età. Non so quando inizi e capisco ancora meno il senso di cercare di individuarla. Chi, come me, ha superato i quaranta da un anno e qualche mese potrebbe essere nel mezzo della vita, e l’oroscopo non manca di sottolinearlo. Il tema natale, per la precisione: non sospettavo ne esistesse uno finché la mia amica L. ha deciso di regalarmelo e mi sono trovata su una sedia, a piedi scalzi, con una donna garbata e colta che mi spiegava che ho paura di essere povera ma non lo diventerò mai, che ho la tendenza a dominare ma un certo pianeta fa sì che mi autolimiti, che fino al 2014 avrò vita sentimentale grama ma una notevole forza interiore. Il tema natale del centro esatto della vita, la mezza età. Certo, ci vuole fortuna per essere qui: ai quarantuno mica arrivano tutte. Incidenti, malattie, violenza, sfortuna di vario genere e grado hanno colpito milioni di donne che oggi, nell’istante in cui scrivo, non possono essere con me a raccontare di esserci arrivate a questi miei quarantuno suonati. Se una certezza esiste è che oggi, adesso sono viva e sto scrivendo. Poi si vedrà.
Insomma, possiamo immaginare che io sia in una mezza età teorica, una terra di mezzo che significa giovinezza meno un tot, ma anche maturità meno un altro tot. Le amiche con qualche anno in più sottolineano che l’età in cui mi trovo è meravigliosa, la luce nelle loro pupille sembra confermare la versione che danno: felice, con un’invidia leggera che passa e va. Gli uomini mi osservano più che mai. Che siano i quarantuno o la sensualità che, presuntuosa, so di possedere anche senza una vistosa bellezza fisica, colgo il loro desiderio e non me ne dispiaccio. Intuisco anche il desiderio delle donne: mai disdegnate, alterno storie erotiche con il mio sesso e l’altro, curiosa e lontana dalla pace che forse mai riuscirò a trovare.
Pace. Ho visto scritto su un muro “pace”, oggi. All’inizio del mio viaggio. Quando PG mi ha accarezzata dopo l’amore, ieri notte, e si è alzato per andare nella sua stanza (non dormiamo insieme, è una sua scelta e mi piace niente), sono scivolata nel sonno e ho aperto gli occhi un paio di volte. Ho dormito fino al mattino. Non so se ci fosse pace, certo ero quieta. Poi il muro, e la scritta. Pace. PG era in treno, ripartito, le lacrime si mescolavano al sudore spiegazzato sotto le lenti degli occhiali da sole e Roma pullulava di umanità. Migliaia di mani e gambe nudi, e teste, e bottigliette di acqua passate sul collo per lenire i quarantaquattro gradi segnati dai termometri sulle automobili. E pace. Non ricordo più da quanto tempo manca, e non recupero il perché. Ho un tormento sottile e continuo acceso da un po’, potrei suggerire a me stessa di cercarne il bandolo appena dopo il compleanno dei quaranta, ma il motivo mi sfugge.
L’anno scorso ho compiuto quarant’anni. Appena dopo ho perso la capacità di riposare sul serio. E oggi sono in fuga. E’ una fuga rimandata, la prima volta che ho tentato non mi è riuscita: avevo programmato ogni dettaglio, prenotato l’albergo e il treno e l’aliscafo. Avevo l’autista pronto ad accompagnarmi a Anzio. E mi sono sciolta di terrore, ho disdetto e perso soldi. Ho deluso me stessa, accovacciata in un silenzio consolatorio, e credo di avere deluso anche PG che è uomo come tutti: adora che io sia tosta e decisa, e che mi levi dalle scatole quando rischio di diventare sentimentale. Non ce l’ho fatta, mi mancava l’aria all’idea di abbandonare i miei gatti per due giorni o tre. Cosa che accade con regolarità assoluta, infatti la mia fuga a Ponza si tramutò comunque in un viaggio dei miei nella città che mi guarda. Roma, perché a Roma anche il dolore si sopporta meglio. Insomma, questa volta devo andare. Domattina l’autista (un altro, diverso dal precedente) mi accompagnerà ad Anzio, mostrerò la mia prenotazione, caricheranno la mia valigia e l’aliscafo partirà. Si tratta di metterci il piede, su quell’aliscafo. Finché non vedrò il mare che corre sotto il mio corpo seduto non potrò credere nella realtà della fuga.
Ponza è nei libri che scrivo, è nel DNA montanaro di una donna di quarantuno anni nata a Lecco che si è scoperta ponzese quando era già adulta. Ponza è, oggi, un esperimento. Perché se non me lo dice lei chi sono e cosa mi sta succedendo nessuno può aiutarmi. Finora ho capito davvero poco.
E’ probabile che accada a tante altre, anzi è certo. La crisi dei quaranta, pare che si dica così. Come la storia della mezza età. Il fatto è che i sintomi sono difficili da raccontare. Primo tra tutti l’estraniamento. L’assenza di un luogo. Viaggio come un rappresentato di commercio ma non trovo il luogo, idealmente non esiste. E neanche la casa è il luogo che cerco. La pace che ho letto sul muro di Roma è evaporata, svanita insieme alle scarne ma solide certezze che da bambina riuscivano a penetrarmi il cuore insieme al brodo caldo se da adolescente piangevo per amore. Mi sento aliena, in transito verso non so dove. E insoddisfatta. Di me. Quando alzo la testa e cerco di affrancarmi, provo a spezzare catene che solo io ho creato mi accorgo che non saprei dove esistere, che di solito la gente si ribella e sa dove arrivare e perché, io invece non lo so. So che scrivo e vorrò essere sempre più scrittore, so che accetto a morsi il mio carattere ipersensibile, debole e forte, mutevole ed egocentrico, so che mi trovo in un’evoluzione che farà epoca. Ma altro non è dato, non vedo luci in fondo alla galleria in cui cammino.
Non hai figli, è anche questo. Lo dico da sola perché interpreto il pensiero di chi invece i figli ce li ha. Chissà se è vero. Mi viene in mente che non ho figli quando vedo i bambini degli altri, quando mi commuovo forse troppo o mi innervosisco e non lo voglio mostrare. Ma parlare di maternità frustrata è eccessivo. Tra un libro e un figlio scelgo il libro e so che per molti lettori questo basterà per terminare la lettura in questo istante. Pazienza, abbandonate pure il mio diario intimo dalla terra di mezzo perché non cambierò versione: non ho avuto figli, capita che sorga una nostalgia tenue e strana ma i libri che scrivo incarnano ciò che di me tengo a trasmettere. E sono importanti, viscerali, concreti e densi di attese e ansia quanto i figli.
Questa sera in albergo rimpiango PG, la sua stanza (accanto alla mia) è diventata estranea: un uomo giovane, ovale, scuro e senza il portamento elegante del mio uomo mi ha salutata e ha osato infilare la chiave nella serratura, ho risposto al saluto mascherando la rabbia. Nel bagno, sbirciato mentre passavo, un accappatoio abbandonato sul pavimento. Orrore. La notte scorsa e questa mattina il tuo letto, caro uomo ovale, ha visto PG con me, e il sesso e l’amore. E tu non saprai quale differenza faccia. Ho chiesto due bottiglie di acqua al bar prima di salire, mi hanno risposto che l’acqua è nel frigobar. Ho detto che quando scrivo bevo tanto, l’acqua del frigobar non mi basta. E ho pensato che era sciocco giustificare, ancora più sciocco obiettare da parte del personale dell’albergo. Ti chiedo l’acqua e firmo il conto, allora? Ma ho taciuto, non ho voglia di confermare il sospetto atavico di ogni albergatore: gli scrittori sono instabili, folli e avanzano richieste bizzarre. Meglio non ospitarli, anche se danno lustro e un certo senso di elevazione culturale. Così, con le due bottiglie in braccio, mi sono infilata in ascensore e ho acceso il computer. Non ho raccontato che prima di ritornare a Trastevere sono entrata in farmacia e ho chiesto una scatola di ansiolitico, ho usato la prescrizione che un’amica medico mi ha fatto prima che decidessi di scappare a Ponza. Sapere che la scatola degli ansiolitici è in borsa aiuta, spesso è sufficiente che la sfiori, o se la situazione è grave la stringa nel palmo senza schiacciarla: mi fa bene sapere che è là. China sulla scrivania piccola della stanza osservo i caratteri dodici Cambria che si accumulano nella pagina. Saluti e baci dalla terra di mezzo, è arrivato prima il titolo. Il resto, se avrò il coraggio di mettere il piede sull’aliscafo, accadrà in seguito.
Giorno due, Ponza
Ho messo i piedi sull’aliscafo, aperto il libro e perso il senso del tempo finché ci siamo abbassati e la velocità è diminuita. Ho dato un’occhiata a Zannone e intuito il profilo di Ponza. Sono scesa tra gli ultimi, aspettavo l’effetto. L’effetto dell’isola e di questa fuga. E sembrava fosse niente.
Giù dall’aliscafo ho atteso la valigia ed evitato di salire su uno dei tanti taxi fermi in attesa, ho trascinato corpo, valigia e borse su per la salita fino all’albergo. Non il solito, al Bellavista non c’erano stanze: ancora più su, fino alla torre borbonica.
– Ma se è da sola avrebbe dovuto dirlo, le ho dato una camera grande.
Benvenuta a Ponza, eccomi nella normalità di questo luogo magico e brutale. Non merito una camera grande perché sono-una-donna-sola. Ma ormai ho imparato e baro ogni volta che prenoto: fingo che si sia in due e che il mio compagno abbia cambiato idea all’ultimo momento. Comunque ho spiegato che l’ho fatto apposta, la volevo proprio così. L’ultima stanza, quella più alta, cinque o sei rampe di scale a picco senza ascensore e la finestra che si apre su Zannone. Quando ho appoggiato le borse sulle sedie con il cuscino a fiori i miei vestiti leggeri erano fradici di sudore, ci sono voluti tre o quattro minuti perché la brezza li staccasse dalla pelle. Ho scattato fotografie e bevuto il mare, il cielo turchese e la scia di poche barche. Le stesse barche che adesso, qualche ora più tardi, rientrano in porto. La Carloforte, lenta, sembra offrire il passaggio alle altre con pazienza benevola: è un animale grosso che ha imparato a comportarsi, dietro di sé ha un tratto di acqua piatta, traslucida, senza la scia. Intorno corrono come piccole mosche yacht bianchi e motoscafi, si affannano per arrivare prima e non trovarsi nel mezzo delle sue manovre. Di notte ho l’abitudine di passeggiare fino alla Carloforte: lascia aperto il portellone ed espone un cartello con l’ora di partenza. Sempre troppo presto per me. Lenta, va avanti lenta. La barca dei gitanti di Settemari guizza oltre lo scoglio e accelera, vedo corpi appollaiati a prua: sono abbronzati, lucidi di olio solare. Probabile che nascondano borse gonfie di avanzi del pasto, teli di spugna e qualche bottiglia bevuta a metà. Ricordo quando ho incontrato questa barca a Palmarola: fregandosene dei passaggi e delle gole tra le rocce, il comandante permetteva a tutti di lanciarsi in mare a destra, a sinistra, a poppa e prua. Un carnaio sconnesso tra le pale dei motori degli altri.
A destra, poco più in qua rispetto all’orizzonte del mare aperto, la nave che trasporta l’acqua. O forse il carburante per la centrale elettrica, ancora non riesco a distinguere. E’ carica, pesante, affonda per buona parte. La sua scia è turchina, solleva piccole onde blu scuro. Ancora lontana, lascia scendere l’ancora: il clangore della catena è spesso, corposo, enorme. Clang, clang, clang, la nave scivola verso il porto e a un tratto si ferma, il rumore svanisce: mi sporgo per seguirla, sta virando su se stessa in un cerchio perfetto. Penso alle serate quiete al ristorante, la luce che cala sul porto e quella nave come un ammasso di ferro sinuoso e placido legato alla terra solo perché deciso a lasciarsi ammaestrare. Mi fanno impressione i motori delle navi, mi intimidiscono le ancore grandi che con un colpo potrebbero sollevare il mare. L’ancora è un’incognita: quando la tiri su non sai se è libera o se con sé porterà qualcosa. La osservo mentre esce dall’acqua e aspetto, se sono io a salpare non posso staccare gli occhi dalla superficie del mare; resto ferma per intuire il profilo e il suo colore, e se vedo alghe so che sarà facile ripulire. Ma se abbracciata all’ancora c’è una sorpresa ignota ecco la paura; ho agganciato la catena di una boa, una volta, e per staccarla ho dovuto lasciare andare il mezzo marinaio. L’ho visto schizzare sotto, travolto dal peso, gli ho detto addio.
La pace che cercavo mi è calata addosso insieme all’isola. Ho camminato e camminato, conscia delle ore e dei giorni e del tempo ristretto. Il Brigantino di corso Pisacane aspettava i miei libri: ho vuotato la borsa e li ho lasciati, poi sono andata avanti fino a Santa Maria. Ritrovo i metri, i centimetri inspiegabili dell’isola che mi fa sentire a casa. Le rondini giocano, le barche continuano a rientrare nel porto. Mi sposto e cerco qualcuno, vorrei una bottiglia di acqua. Vorrei. Riconosco il bar perché alcune piccole bottiglie di analcolico rosso spiccano sulla murata bianca, ma niente oltre a loro evoca la possibilità che riceva l’acqua che desidero.
Sposto lo sguardo sulla torre borbonica: una crepa larga quanto il mio torace mostra le pietre, toppe di intonaco ingialliscono qua e là. Decido che non potrà cadere finché sono ospite in albergo, perché dovrebbe? Lo spirito dell’isola mi possiede, il fatalismo molle e pigro si mescola al calore e alle piccole furbizie di un ex confino. Ho imparato solo dopo anni che se compro più di un giornale devo controllare che non me ne sfilino uno dalla pila dopo che ho pagato; sono ormai capace di sedermi ad alcuni ristoranti accettando che non sia mia la scelta, ma, perché sola, davanti a me si appoggino i piatti decisi dai proprietari. E questo albergo non si sbriciolerà, non oggi e neanche domani. Se avessi potuto comprare il faro della Guardia l’avrei ridipinto di bianco, e dentro avrei voluto tende candide e leggere. Ho infilato l’isola e il faro in tutte le storie che ho scritto, la stanza da letto affacciata su Palmarola ha visto amori e solitudine e uomini che seducevano, amavano, possedevano le mie protagoniste con il rumore delle onde sbattute sulle rocce centinaia di metri più sotto.
Cosa cerco qui, oggi? Una telefonata mi riporta indietro, su un’autostrada dove qualcuno mi racconta che ha confuso la pompa della benzina con quella del gasolio e aspetta il soccorso stradale. Sono lontana, il mio ruolo di amica e assistente è impossibile, ma l’ansia mi strappa al mare. Vedo a malapena le barche e le loro scie, i profilo di Zannone sfuma con la voce fioca delle rondini. E’ questo, è la sensazione che l’equilibrio del mio piccolo mondo dipenda da me. E il senso di colpa, il viaggio mi distoglie dal dovere di essere ciò che per anni sono stata. In un film qualcuno diceva “Sono Wolff, risolvo problemi”. E’ la frase perfetta. Sono io, risolvo problemi. Ho creduto che l’amore fosse l’aiuto che davo, il bisogno che riuscivo a creare quando sapevo rendermi indispensabile. Quale gratificazione, quale godimento constatare che si è il perno di una realtà che potrebbe essere amore! Poi si capisce che funziona tutto a rovescio. Il bisogno è bisogno: se si chiama così e non si chiama amore esiste un motivo. Perché il bisogno non è amore.
Negli anni ho sempre scelto uomini che, in un modo o nell’altro, avessero bisogno di me. Lavoro, salute, esigenze concrete di una vita da organizzare. Ho costruito tassello dopo tassello la mia prigione perché potesse darmi la sensazione dell’amore. Peccato che oltre le pareti della prigione siano esistite altre donne che tutto avevano in mente tranne l’aiuto, la sollecita presenza, la saggezza dei consigli e l’assistenza vivace e operosa. Erano deboli, loro, avevano voglia di ricevere attenzione. Nessuna si sarebbe sentita come mi sento io ora, a centinaia di chilometri dal distributore di benzina dell’autostrada e con il pensiero che stia mancando a un dovere. Non sono stata io a confondere la benzina e il gasolio, non io ho infilato la pompa sbagliata nel serbatoio, però sono a Ponza, seduta davanti al mare con il romanzo che si scrive sotto le dita e la brezza che solletica il collo e accarezza la schiena. Male, molto male: avrei dovuto pensarci e non allontanarmi così, non mettere il mare tra me e i problemi che avrebbero potuto nascere.
Le rondini e il silenzio, per la prima volta la Carloforte è ripartita subito. Stupita, l’ho seguita mentre si allontanava e fendeva il tratto di mare a spicchio sotto la terrazza dell’albergo. Mi piace che le rondini aprano le ali a pochi metri dai miei occhi, ho la sensazione che lo sguardo le trapassi senza fare male. Per un paio di anni ho affittato una casa bellissima a Firenze, era affacciata su Ponte Vecchio; era stata la casa di Adriana Pincherle, pittrice e sorella di Alberto Moravia. Le rondini a centinaia giocavano intorno a Ponte Vecchio, mi capitava di osservarle per ore girare intorno e sfiorare l’acqua, andare su e rincorrersi e fare voci che strapazzavano il tramonto. Il cielo aveva nuvole sfiocchettate oppure sfumava rosso nell’indaco e nella notte, e le rondini garrivano nella danza folle dell’amore e del gioco, ed erano manciate, nugoli, stormi pieni a non finire. Ho imparato là a conoscere il volo spregiudicato e veloce della rondine, ti viene incontro e non ha paura, piega in alto o in basso in tempo perché tu non possa toccarla. Sfila, corre via, ti mostra l’arte dei suoi volteggi e ritorna. E grida, canta, non puoi ignorare che esista e neanche dimenticarla più. Se solo ricordassimo come è l’istinto dell’animale, se solo lo tenessimo anche per noi. Ho incontrato un gatto morente, prima. A Santa Maria una donna me lo ha indicato al margine della strada, all’imboccatura della galleria. Era stremato e miagolava, metà del corpo senza più peli. La donna l’ha sollevato e portato più in là, tra due case, l’ha appoggiato a una roccia dipinta di bianco; si è alzato e si è nascosto in un pertugio, sdraiato con le mosche addosso. Sono rimasta a guardarlo, l’ho accarezzato con la mente e pensavo che stesse morendo, e che la morte fosse la guarigione. Lasciare andare, mai stata capace. Aprire le mani e mollare il controllo (un controllo impossibile, ma vallo a spiegare ai miei neuroni ipersensibili). Il gatto disteso, sempre più calmo, respirava piano e ogni tanto chiudeva gli occhi; le mie mani, metri sopra, lo accarezzavano e volevano che accadesse il meglio. La guarigione, le forza a ritornare oppure la morte.
Oggi non potrò ritornare indietro. L’ultimo aliscafo se ne va. Eppure, nonostante l’autostrada e il senso di colpa fulmineo e la distanza che mi impedisce di essere la solita io-che-risolve-problemi, respiro la vita che solo qui addensa significati diversi. E sono in pace. E non mi preoccupa troppo che il cellulare ogni tanto non abbia campo. Ho quarantuno anni, non ho avuto figli e mi sono sempre lasciata amare per bisogno, senza rendermi conto che non è mai stato amore. Poi sono fuggita. Quando ho visto il gatto e pensato che forse avrebbe fatto meglio a morire ho tentato di aprire le mani per lasciare andare un pezzo di me.
Giorno tre, Ponza
Ho sempre avuto una strana curiosità nei confronti della morte. Da bambina dichiaravo che le alternative professionali sarebbero state camionista oppure becchino; ovvio che mentivo, sapevo bene che mai avrei scelto di diventare becchino oppure camionista. Massimo rispetto per queste due professioni, ma non sono per me. Amavo l’espressione esterrefatta di chi mi ascoltava e il divertimento lieve che scorgevo sui volti. Perché avessi voglia di provocare parenti e amici con l’idea di diventare becchino non so, ci pensavo questa mattina al cimitero. Arrancavo su e giù, leggevo lapidi e fotografavo le frasi più toccanti e rimuginavo sulla curiosità per la morte. Che ho sempre avuto.
Ricordo quando mia nonna mi portava con sé ai funerali: entravo nella parte e, nonostante avessi solo tre o quattro anni, mi sentivo vicina alla persona defunta che il più delle volte non avevo mai visto. Sconosciuti chiusi nelle bare o esposti nella camera ardente dove mia nonna non mancava di piangere due o tre minuti stringendo le mani dei familiari. Mi commuovevo tanto da mettere in piedi lunghi monologhi notturni, vere lettere postume a mezza voce che strappavano (a me) lacrime di addio. Parlavo con i morti, insomma, e mi straziavo per la loro dipartita. Penso che le passeggiate pomeridiane ai funerali per mia nonna fossero un diversivo, con il sollievo sottile di essere viva e arzilla nella coda di persone che seguiva il feretro. Teneva la mia mano e ripeteva il rosario, non sempre mi sembrava troppo partecipe del lutto ma può darsi che questa sia la mia lettura adulta di eventi troppo indietro nel tempo. Poi c’è stata la storia del becchino, ma è venuta dopo. Come esperti bookmaker, i parenti giuravano che sarei diventata medico e il nonno, il più saggio e inascoltato, scuoteva la testa convinto che avrei dovuto seguire la mia inclinazione e lavorare come scrittore o giornalista. Il fatto che il mio futuro fosse stabilito da altri mi spinse a optare per alternative irrealistiche e per niente vicine alla mia personalità: camionista (mi intrigava la libertà) oppure becchino. Una leggera inclinazione alla prossimità fisica con i cadaveri esiste sul serio, a lungo la morte mi ha insinuato orrore ma anche un’attrazione che non saprei spiegare.
Ogni volta che ritorno a Ponza vado a visitare il cimitero. Mi commuovono le lapidi ingenue, creative, i numeri e nomi scritti a mano e i pensieri strazianti di genitori, sposi, nipoti. I cognomi sono quasi sempre gli stessi: Mazzella e Feola, per esempio. La disposizione dei sepolcreti e delle tombe è bizzarra, obbligata dalla conformazione del cimitero abbarbicato alle rocce: scale che vanno giù e su, sentieri quasi mai comunicanti tra loro, non esiste una strada unica che permetta di girare tra i sepolcri senza stare attenti a dove si mettono i piedi e memorizzare come Pollicino il tragitto più semplice. L’acquisizione recente è il profilo nero dipinto sulla calce bianca perché si eviti di cadere: è un’evoluzione che condivido, mi sono chiesta spesso quanta gente, colpita dal caldo a picco sulla testa e dalla confusione di viottoli, si sia fatta male nel giorno dedicato alla visita ai morti. Certo è che dal cimitero la vista dell’isola è meravigliosa: difficile inquadrarla nelle fotografie conservandone la magia, se si sale fino al cimitero si colgono dettagli che altrimenti potrebbero sfuggire. Con gli amici più suscettibili evito di raccontarlo, ma le immagini migliori che mi capita di donare loro sono colte dagli angoli aggrovigliati di sterpi e rocce ai margini del cimitero.
Uno dei pensieri strani che questa mattina mi hanno colpita è che nel 2006 Ponza abbia perso tanta gente, e che l’amore per alcuni defunti più giovani o popolari si possa quasi toccare. Ci sono bambini con fotografie vivide, giocattoli, piccole statuette di santi souvenir di pellegrinaggi e messaggi straziati dei genitori, giovani le cui vite si sono interrotte a sedici, venti, trentasei anni, e c’è la tedesca di Santa Maria che, come spiega la lapide semicancellata, “amava Ponza”. C’è una donna il cui ritratto fa pensare alla follia o a una disabilità: sulla sua tomba una Minnie in pupazzo è appesa da che ho memoria; quale tenerezza di fronte alla fotografia di questa donna, quali carezze riesce a strapparmi. Alcuni di loro mi paiono familiari: fu la mia prima visita al cimitero, tanti anni fa, a mostrarmi la giovane e avvenente ragazza fotografata di tre quarti, i capelli lunghi e scuri sciolti sulle spalle e la scritta “sei stata il nostro sogno più bello, mamma e papà”. L’anno scorso la lapide lunga, orizzontale, sempre lucida ha ospitato una fotografia più piccola, un uomo nato nel 1922 con lo stesso cognome della ragazza. Suo padre. Mi sono fermata da loro, oggi, e ho immaginato come sia stato il loro incontro. Il padre l’ha raggiunta e, non so dove, probabilmente si sono abbracciati.
Il labirinto faticoso di scale e viottoli qualche volta mi ha scoraggiato. Forse avevo un rapporto differente con la morte, non ero ancora saltata oltre il guado della consapevolezza. Insomma, mi è capitato di concludere le mie visite al cimitero con un’inquietudine storta e la rinuncia a raggiungere le parti più lontane e basse scavate nella roccia. Cinque o sei anni fa sono scappata quasi di corsa, avevo la sensazione che i passi di un uomo (che però non riuscii a scorgere) mi seguissero. Questa mattina sono arrivata agli estremi limiti, ho scoperto zone mai viste. E il monumento isolato, in fondo, in un piccolo riquadro di terreno con gli alberi davanti: ho preso un’immagine e chiederò a qualcuno di tradurre la lingua (araba?) di questa specie di piramide chiara. Di nuovo sono entrata nella chiesa appena oltre il cancello: la statua della Madonna è un’invenzione ingenua, e ingenua e tragica è la lapide di un bambino che, forse perché ricco, ha meritato il sempiterno ricordo proprio accanto all’altare. Ricco e sfortunato, non sono sicura che la lapide in chiesa fosse ciò che sognava per sé. E il sedicenne con la maglia della squadra del cuore appesa nel sepolcreto? Cosa avrebbe voluto ottenere per la propria età adulta?
La morte è metafora finché smettiamo di respirare, la mia analista direbbe che per evolvere e diventare altro, per andare avanti è necessario che muoia una parte di noi.
Ieri sera sono andata a cercare il gatto. Nonostante la stanchezza ho oltrepassato le due gallerie: quella più breve tra Ponza e Giancos e l’altra, lunga, fino a Santa Maria. Tre o quattro scalini a sinistra, una nicchia di roccia bianca e non l’ho più ritrovato. Era buio, ho creduto che fosse più in là, nascosto in un angolo, ma non sono riuscita a vederlo. Può darsi che sia morto e qualcuno l’abbia spostato, oppure l’energia è ritornata e ha scosso da sé le mosche per ritornare a vivere. Oppure, ma per una come me questa soluzione è la peggiore, si è trascinato altrove senza risolvere la propria via di mezzo tra morte e vita, il respiro di pancia inframmezzato a miagolii di dolore.
La finestra aperta mostra un rettangolo di cielo, il verde della vegetazione e accenni delle onde del mare. Hanno gettato un’ancora pesante, poco fa. L’aria condizionata è spenta, la brezza che riesce a filtrare è sufficiente. Scrivo con il computer sulle gambe, seduta sul letto che è su un soppalco; scale, scale, ancora scale. Troppe scale e il sudore che cola addosso e impregna i vestiti. La stanza che mi hanno dato (troppo grande per una donna sola) ha due porte di ingresso, e una è aperta. La chiave ne chiude solo una. La notte scorso ho piazzato la valigia e una sedia dietro la porta che non si chiude, è difficile che abbia paura ma l’idea che si possa entrare qui mentre sono addormentata mi piace niente. In più, il telefono è ponzese cioè finto: bianco, pulito, con il filo nero che penetra in una presa nel muro, ma inutile. Non è collegato. Questa mia favolosa vista sull’isola è l’unico merito di un albergo che, per fortuna, non è quello abituale. Dopo il cimitero sono andata a trovare gli amici del Bellavista. Mi hanno mostrato il ristorante nuovo sulla terrazza e una stanza singola che occuperò quando ritornerò ad agosto. Avrò il mare negli occhi, la porta sarà in grado di chiudersi e il telefono avrà un senso funzionale e non solo estetico.
Un elicottero basso, il rumore alle mie spalle nel cielo spaccato dalle linee dell’isola. Si dice che il faro della Guardia sia in vendita con il vincolo che sia trasformato in un resort di lusso. Al Brigantino ipotizzano che non sia quello il faro in vendita, e una piccola e minuscola e luminosa speranza si è accesa nella mia testa. La speculazione su Ponza è appena percettibile, siamo agli albori della trasformazione in un’altra Disneyland che piacerà ai milanesi modaioli che giocano a golf. Agli albori, non ci siamo ancora. Per un po’ di tempo Ponza sarà ancora la mia isola, poi dovrò emigrare. Insomma, sentire che forse non è il mio faro che è stato messo in vendita (pare sia zona militare) ha cancellato per qualche istante l’afa e il respiro mozzo. Il mio prossimo romanzo (sarà poi quello il prossimo? Chissà) è parzialmente ambientato nel faro della Guardia, l’ho ricreato a mia immagine e fantasia, a mio bisogno e realtà parallela. Il resort di lusso proprio non ci sta. La prima volta che mi accorsi del faro della Guardia ero in barca, su un gozzo di legno con il tendalino. GP. conosce Ponza, è venuto qui da studente di medicina almeno quaranta anni fa; nei primi anni della nostra relazione volle mostrarmela, e ogni volta che ritorniamo affittiamo un gozzo che carichiamo con teli di spugna, fichi, mozzarelle e pane. E litri e litri di acqua. Poi le pinne, gli occhiali e le maschere. Quella prima volta fui colpita da quanto conoscesse ogni anfratto, perfino le manovre migliori per le rocce affioranti; amo che sia lui a pilotare, lasciavo che gli occhi viaggiassero alla velocità del gozzo, il tratta di mare tra Ponza e Palmarola era calmo. E il faro colpì la mia attenzione. Fu la coscienza della perfezione. Era la mia casa, il rifugio necessario. Sono nata per abitare al faro della Guardia. Fu la prima e ultima volta che mi capitò un innamoramento del genere, e forse non è un innamoramento: è il riconoscimento tra due entità che si appartengono. Il faro e io, io e il faro.
Mi chiedo cosa accadrà di queste pagine. La mia fuga, e l’isola. Ponza si infila nelle storie che scrivo, nei sogni e nei sospiri. Voglio vivere qui? La domanda è nata oggi davanti a un piatto saporito di pesce servito quaranta minuti dopo l’ordinazione. I giornali spiegazzati, la linea del cellulare che andava e veniva, un motoscafo grosso e viola in attracco a un pontile. Voglio vivere qui? Non ne ho idea. Certo, l’isola interrompe e rallenta. Soffia lentezza appiccicosa e placida sui pensieri e sulla rapidità dei gesti. E non ho il problema di inventare chi sono, di costruire la giornata. Solo qui succede, non mi importa di decidere cosa e quando. Rientro nell’albergo temporaneo (ogni albergo è temporaneo, questo lo è più degli altri) e scrivo, vomito confessioni e ricordi e parole accaldate senza sapere cosa ne farò. Parlo di morti, di cimiteri, di gasolio e benzina, di gatti in agonia che spariscono dalle rocce bianche. E non ho dentro la trama di un romanzo, non ho il sapore di personaggi nati e destinati a vivere. Ho me, e la scrittura. E dubbi giganteschi su cosa sia la mezza età e quale significato abbia. Quarantuno anni mi fanno dire che non andrò al faro a piedi, non con questo caldo. E’ questa l’età di mezzo? L’inizio del non fare per preservare una salute che è questione di equilibri a noi inaccessibili?
Lo specchio sulla parete riflette la finestra, e la finestra racconta case con i colori pastello che digradano fino al mare. Sulle labbra il sale. I capelli arricciati senza una forma.
A Ponza, da sola. Chi l’avrebbe detto.
Che poi forse avrei dovuto aspettarmelo. Abbiamo ciò che attiriamo nella nostra vita, io ho attirato tutto questo. Non che abbia da lamentarmi: ho una professione che mi riesce bene, ho la salute e persone che si ricordano di me. Conosco il mondo, il mondo conosce me. Quando scappo posso arrivare a Ponza e potrei anche andare oltre. Posso, posso, posso. Il punto è che cammino sulle strade delle città meravigliose che mi va di visitare e mi accorgo che al mio fianco c’è nessuno. Sono sicura che il tempo arriverà, me l’ha detto la donna che mi ha letto il tema natale ma il suo sforzo non sarebbe stato necessario. So che la solitudine appuntita di questo periodo, una solitudine densa di persone ma vuota di vicinanza intima, cambierà il proprio aspetto, si plasmerà all’età e alle circostanze.
Nel tardo pomeriggio sono salita su un autobus delle autolinee ponzesi, ho agganciato gli occhi al finestrino e osservato dall’alto l’isola che sfilava. Lucia Rosa, Le Forna, Forte Papa. Avrei voluto cenare al Tramonto ma il tavolo non c’era. Peccato per la cena e per le fotografie che non ho potuto scattare. Sulla strada del ritorno Palmarola così vicina, lavata dal sole perfetto e da una luce emanata dalle rocce scure mi ha tolto la capacità di pensare. Avrei pianto, ma di gioia. Se il faro fosse davvero la mia casa avrei Palmarola così tutte le sere: il profilo frastagliato che muta con il vento e gli anni, il corpo massiccio e l’esplosione del sole. Amerei anche i temporali, e il vento impetuoso a spaccare gli scogli.
Dentro il paese di Ponza c’è una via piccola che mi affascina più delle altre. Si chiama via del corridoio, costeggia a mezz’aria (sembra proprio di essere sospesi) la roccia vulcanica nera e gigantesca, è un passaggio lungo su cui si aprono le porte delle case con i contatori per l’elettricità a vista e poco spazio per camminare in due. Più avanti, verso le gallerie e “Gennarino a mare”, si sale e si arriva al piccolo hotel Luisa. Non vede il mare, ma a me piace ciò che sta accanto al mare senza la spudoratezza di una vista assoluta. Come la mia casa di Tellaro: è un bilocale silenzioso e quieto, piccolo e rivolto alla valle. Guarda la vegetazione e ascolta muta la realtà cruda di un centro per disabili. Auguro a tutti di trascorrere almeno qualche ora in prossimità di un luogo dove si possano incontrare persone disabili: è un bagno di saggezza e pensiero, e riflessione che non può lasciare indifferenti. A Tellaro la casa non vede il mare nonostante sia a meno di cento metri dall’acqua, ma la terra con il suo silenzio e la presenza di adulti e ragazzi con disabilità gravi rendono i miei soggiorni unici. E la scrittura fluida e profonda. Il piccolo hotel Luisa mi ha ricordato la casa di Tellaro: quieto, lindo, tanto verde e i fiori, il mare solo nell’odore del vento. Non sono sicura che questo sia un ricordo, forse è una semplice suggestione, ma l’albergo evoca scrittrici che amavano Ponza, donne cui mi sento vicina oltre i limiti temporali e fisici.
Il ronzio lieve dell’aria condizionata e la voce di Claudio Lippi dalla finestra: arriva dal porto dove hanno montato un’impalcatura di ferro e questo pomeriggio qualcuno, una donna, cantava l’inno nazionale. Il libraio del Brigantino mi ha spiegato che questo 9 luglio è speciale, c’è la sfilata. Non ho chiesto quale sfilata, né ha tenuto a spiegarmelo: era chiaro che il mio acquisto di libri significasse che mi sarei ritirata in albergo, ed era altrettanto chiaro che lui apprezzasse la mia scelta. Comunque Ponza oggi assomiglia a Beverly Hills. La cena all’Aragosta (posso definirlo il mio ristorante preferito? Non so se lo sia, certo è il ristorante che finora ha trovato posto nei miei romanzi, insieme al Bellavista di Erasmo e Giovanni) è stata pennellata da visioni famose: nella folla di gambe e braccia e cosce tornite e scure di sole ho scorto la presidente della Regione Lazio (che gorgheggia ora sotto le mie finestre), un regista famoso per film di leggerezza becera, due o tre giornalisti, il presidente della RAI, un cantante e pletore di visi che “sono qualcuno ma non so bene chi”. Non mi aspettavo una folla di questo genere all’inizio di luglio, il viavai di lucernari (questa ve la spiego, arriva da Umberto Veronesi che un giorno fu apostrofato da un tizio più o meno così: “Professore, quale onore per me incontrare un lucernario come lei”) è più tipico del mese di agosto.
E rallento. Il terzo giorno della mia fuga, lungo e intriso di calore e pace. La pace scritta sul muro a Roma, una pace strana che, ancora, sussurra al mio orecchio che sono nata in questo luogo, a questa isola appartengo. Il lago di Lecco, il piccolo paese di Calco? Non so dire quale relazione abbiano con Ponza, ma è qui che l’anima si placa. E rallenta. Come accade ora, la mente evapora pensieri che non servono e rimanda. Potrò scrivere ancora, domani, e aggiungere parole e pagine. Domani. Per anni ho invidiato Jack Nicholson che in Shining aveva a disposizione l’Overlook Hotel e la neve, e gli alberi, e una dispensa inesauribile, e il camino. E la scrittura. Forse è questo, il ritiro in una solitudine obbligata ma voluta, l’abbandono di ciò che non è scrittura. Di ciò che, in effetti, non è.
Perché scrivere è creare, mescolare e fondere. Ho infilato me stessa e la fantasia, ho inventato e modificato, plasmato e strappato, poi ricucito. Ho lasciato andare i sensi e immaginato cosa accadrebbe se… Tutto e niente è vero nelle parole che ho messo in fila. Succede che incontri persone che non conoscerò mai, ma riesco a inventare relazioni e amicizie che acquistano l’odore della pelle e il senso dell’amore. Dell’odio. Di un legame karmico. Comunque. Ho sfiorato fatti e persone, stravolgendoli nello stesso momento, tanto da intirizzire la pelle di brividi freddi e piccoli. E a ciascuno lo propria verità.
Perché io sono la mia scrittura.
Pace a voi.
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C’è un momento in cui Samwise Gamgee si ferma davanti a un campo di grano e dice: “se faccio un altro passo, sarò andato più lontano di dove sono mai stato prima.”
Non so se dovresti andare oltre. Se scappi.
E’ un velo di parole. Gli occhi che scorrono sulla tua scrittura, sono il vento che soffia sopra l’isola.
Difficile rispondere o commentare a mia volta, Fabio. Ora ho compreso che ogni parvenza di fuga fa parte dell’evoluzione. Grazie per la lettura e il commento che trovo bellissimo.
IL VANTAGGIO DELLA “TERRA DI MEZZO”
cara MariaGiovanna c’è e si vede.Si vede per come sai distinguere il fuoco dai fuochi d’artifici,da come alzi le spalle all’albergatore quando ti fa capire o dice, quando vedi un cadavere a terra e non ti fa paura.In piedi ,se circolano,è un’altra cosa.Li scansi o scappi via magari scansando anche un’impercettibile brivido da ignota saputa paura.Un abbraccio da osteria.Quella del Belli,ovviamente.Lui rideva serio e senza aver paura. Un pò come faccio anch’io.Mirka (Bianca 2007
Abbraccio da osteria, evviva!