abbaglio e finzione nell’hotel di Venezia: un uomo con il panama in testa

 In Blog, I racconti del taccuino, Racconti, Racconti brevissimi

E’ nato nel 1913. Leggo due, tre volte. La data di morte manca. Quindi niente è facile come credevo.
Perché quando mi sono accomodata sul treno, carrozza uno posto trentasei, il pensiero girava e rimbalzava tra i neuroni come una biglia, si divertiva a stuzzicarmi senza prendere forma. Ero sicura che fosse morto. Per me la sua morte era il rifugio confortevole, la conferma che stessi affrontando lo scherzo della mia immaginazione da bambina sempre sovreccitata. Lui, che avevo incontrato poco prima. Invece no. Internet butta in aria le idee e muove qualcosa in fondo al mio stomaco, la data di morte non si trova. Lui è ancora vivo. E’ vivo, capite?
Ordine, ci vuole ordine. Soprattutto con lui. Racconto da capo.
Questa mattina ho scritto, nascosta nella camera piccola dell’albergo con il canale che sciaguattava sotto la portafinestra. Notte tarda, fatica e vino rosso mi hanno reso pigra, ho rinunciato alle ultime ore del congresso per lavorare di scrittura. Alle 11 ho raccolto le borse, afferrato la valigia e mi sono infilata nell’ascensore. Apri, chiudi, scendi. Ho pagato il conto e lasciato i bagagli e per venti minuti scipiti ho girovagato nei metri di Venezia intasati di lusso opprimente e turisti la cui andatura rallenta perfino la fantasia. E l’albergo, di nuovo, alle 11.30.
Nella hall pochi passi, controllo la gente che chiede informazioni ed esito. Non so perché, mi volto. E lui è a meno di un metro da me. Ci scontriamo, quasi, e restiamo fermi. Lunghi minuti.
Sono i suoi occhi: il taglio, la piega laterale in giù, le rughe profonde e molli, l’espressione triste e vuota. Poi il volto. Le labbra sottili, anche quelle piegate, curve appena. Come nelle fotografie. E la postura. E’ molto vecchio ma sta dritto come un palo, elegante in una giacca scura e con il panama in testa. Il suo nome balena in un’immagine, solo dopo arrivano cumuli di parole.
– Ma guarda. Incredibile. Lui è… Ma no, è morto. Figurati. Se anche fosse vivo non potrebbe essere qui.
Sono io a smentire me stessa, e approfitto dell’inerzia, della nostra esitazione. Mi dilungo nell’osservazione e lui scambia qualche parola in tedesco con una donna. La donna si rivolge al personale dell’albergo, poco più in là. In italiano. Anche lui conosce l’italiano, l’accento è tedesco. Dovessi definirlo in poche parole, in questi primi e unici istanti, direi che è antipatico e nervoso, e i miei occhi addosso gli creano fastidio. Ma non posso mollare. Perché sto cercando appigli per smentire me stessa, per convincermi che lui e l’altro, il tizio che ho visto così tanto sui giornali, si assomigliano ma non sono la stessa persona. Impossibile che lo siano. Eppure i dettagli contrari non arrivano. Sono identici.
Stordita, riesco a spostarmi e gli dedico qualche altra occhiata. Si volta, va via. Non gli piaccio, è chiaro.
Divago e chiedo i miei bagagli, non riesco a concentrarmi su ciò che faccio. Metto in un cassetto la voglia di controllare subito, la parcheggio più in là. Poi vado in stazione. Il canale, le nuvole, la pioggia e un quarto di sole negli angoli. Venezia tormentata mi saluta. E in treno scrivo un articolo sul disturbo bipolare e la creatività.
Tempo, e il viaggio bianco verso Milano.
La mente libera si riaccende divertita quando stacco dall’articolo. iPad in mano, cerco il suo nome.
– Dai, vediamo quando è morto. Non può essere vivo.
Rido di me e degli eccessi che il cervello sa creare. Nome, cognome nel motore di ricerca. Risposte immediate, decine di pagine. E la data di morte non c’è. Confusa, leggo le notizie che posso. Dovrebbe essere altrove, agli arresti domiciliari, qualcuno l’ha incontrato al ristorante e ha protestato ma lo può fare, non è un reato. Può uscire di casa nella città dove è agli arresti.
Un uomo alto, tedesco, che conosce l’italiano. Molto vecchio. Il panama in testa.
Non sto più giocando. Racconto a qualcuno, le risposto sono diverse. Un’amica non mi crede e abbozza (solo la solita irrazionale), un’altra invece pensa che sia possibile. Poi ancora parole, e altri credono a ciò che racconto.
Abbaglio. Illusione. Incubo. Fatalità bizzarra.
Non so. Ma sulle rotaie macinate dal treno non abbandono i suoi occhi, e la data di morte che manca. Sono pazza, ipersensibile e facile alle impressioni devastanti. Bipolare il tanto che basta per scrivere. Ma potrei alzare la mano destra e dire che giuro. Giuro sulla somiglianza assoluta, sul caso della vita che vuole che due uomini siano così simili. Non serve che la gente mi creda e forse non ha senso raccontare; conta che dentro di me sia nata una deriva, il rombo tonante di emozione e sgomento. Il volto dell’uomo è il colpo secco di una campana che ha suonato all’improvviso. La breccia temporale si è aperta ai miei piedi, mi ha chiesto di saltare dentro e cambierà la mia vita. Ho visto un passato che, incarnata nella donna di oggi, non ho potuto conoscere. Seminascosti dal panama, ho visto la Gestapo, e i morti e le divise. E la mia fantasia ha creduto di scorgere, pazza che è, un uomo che le pagine del Mondo definiscono ancora “criminale nazista”.

In un albergo di Venezia un uomo qualsiasi, senza nome e tedesco, ha evocato il fantasma di un criminale nazista.

Questa è finzione, amici. Tutta finzione. Niente è vero. Sono uno scrittore, si sa.

Recommended Posts
Showing 2 comments
  • lucia

    E’ sempre meravigliosamente coinvolgente leggerti, grazie

pingbacks / trackbacks

Start typing and press Enter to search