le carezze sul tuo dolore

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Forse questo spiegherà parte del silenzio di questi mesi. Forse. Non è importante spiegare, è come tossicchiare appena prima di un discorso in pubblico: meglio evitare, serve a nessuno.

Se solo fossi capace di trovare parole adatte. E’ che le parole sfuggono, l’aria condizionata soffia fuori calore che mi si appiccica addosso e il temporale sgocciola contro i vetri.

Ho lasciato l’automobile a caso, dentro un parcheggio approssimativo dove le foglie sporche e bagnate mi hanno permesso di scendere e camminare senza rovinare troppo il fondo dei pantaloni neri. Che poi sono pantaloni di una tuta, cosa importa… E’ che a me la tuta piace, la indosso quando sono libera e me ne frego che le signore della buona società non siano d’accordo. Sostengono che dovrei indossare tacchi e truccarmi, che ho un viso perfetto ed è un peccato non valorizzarlo con ciò che potrebbe rendermi una bellissima donna. Si può rendere bellissima una donna? Lo è oppure non lo è, se devi spruzzarle addosso il falso perché si senta bellissima non vale. B. lo è, lei è la bellezza assoluta e perfetta (non credevo esistesse, prima di conoscerla): mi succede di incantarmi a guardarla, seguo le linee del suo corpo e la sua voce fino a perdermi, cerco un difetto e non lo faccio perché voglio consolarmi e sentirmi simile a lei, lo faccio perché non ne ha. Niente impurità, non ha difetti. E mi compiaccio quando scopro che ha una testa più acuta delle altre, un’intelligenza più svelta, è colta e ogni cosa le riesce bene. Le è riuscito bene anche il cancro, povera B., e vorrei che si aggrappasse alle mie mani per farsi tirare fuori, vorrei che il calore dei miei palmi spazzasse via le cellule marce e stupide che viaggiano nel suo corpo senza scopo. Cellule che stanno rovinando un’opera d’arte, senza altro fine che morire insieme a lei. Quando indossa una tuta, B. rimane bellissima: potrebbe saltare a piedi pari nella pozzanghera ricoperta di foglie sporche dove ho parcheggiato poco fa e non perdere un milligrammo della sua perfezione. Peccato che non possa più saltare: a malapena cammina anche se non molla, si tiene dritta e quando ti abbraccia senti che cede solo un attimo, come se provasse a controllare se sai tenerla su. Spesso ho immaginato di sollevarla, prenderla tra le braccia per regalarle un luogo che non ha mai visto, uno di quelli che bastano a se stessi e riempiono di gioia eterna come Dio.

Ricordo la prima volta che si parlò della sua malattia. Fu sua madre a chiamarmi. Eravamo amiche da tempo, quando viaggiavo nella sua città uscivamo a cena e ci scioglievamo nelle chiacchiere confidenti delle donne simili per carattere, cultura, passioni. E mi telefonò in un giorno che mi piacerebbe rimuovere, le lacrime nella voce. “B. ha un tumore”. E disse l’organo colpito dalla malattia. Ora, dovete considerare che ormai da tanti anni lavoro in un centro oncologico ma esistono notizie che suonano indecenti in ogni caso. B. aveva ventiquattro anni. Feci ripetere la frase a sua madre, il mio cervello pensò che non fosse possibile. Assolutamente no, non lei. Non B. A lei non poteva accadere, e soprattutto era un errore ipotizzare che l’organo in questione fosse colpito da malattia a un’età così giovane.

La presunzione di sapere e essere in grado di smentire la vita è una difesa debole, dura lo spazio di un singhiozzo.

Partii la mattina successiva e raggiunsi la mia amica, poi B. in ospedale. La ricordo bella, in un letto e con un sorriso incancellabile sulla faccia. Stordiva, il senso irreale di un dettaglio impossibile, di un clamoroso errore di persona aumentò appena i miei occhi si fermarono su di lei. Che dentro il suo corpo esistessero cellule avvelenate, una massa capace di crescere e rosicchiarle via la vita non era nelle ipotesi che la mia mente sapeva contemplare. Gli esami, però, non erano propensi a darmi ragione. Nei giorni e settimane successivi il mio rifiuto ad accettare l’idea dovette lasciare il posto alla consapevolezza: per quanto indecente, B. aveva davvero un tumore, e la situazione era complicata. Seguirono cure, incontri, chiacchiere, sorrisi, speranza e delusione, biscotti che preparava per me e libri, e sms e telefonate, e cene nella sua e nella mia città. Tempo che terrò per me, che è inutile svolgere nella scrittura, oggi e qui. Snocciolo sensazioni e le frasi di chi via via l’ha incontrata: un incanto, la divina perfezione, impossibile che… Già, impossibile che. Ma arriviamo qui, ora. Perché l’immagine che ho negli occhi è quella di ieri. Lei che apre la porta della sua casa al mio arrivo. Il pallore diafano, e gli occhi liquidi e vivaci. E’ spirito infiammato in un corpo secco. Il dolore non riesce a renderla scialba, meno che mai brutta: lei bellissima, ancora, si rannicchia sul letto e lascia che le mie mani massaggino là dove fa tanto, tanto male.

Non ho figli ma sei tu, ora, figlia e tenerissima bambina. Sulla tua schiena – le mie mani a donarti carezze e amore – noto la pelle sottile e giovane. E il tuo diritto a non soffrire.

Ho parcheggiato storto e appoggiato i piedi su foglie sporche, salvando il bordo dei pantaloni della mia tuta nera. Continuerò a indossare la tuta nera, me ne frego di chi pensa che non dovrei. Mi sono detta che devo scrivere, che ho scadenze e impegni, che la scrittura è il mio lavoro e mi salva. Mi ha sempre salvato. Il fatto è che dolore e rabbia fanno fatica a trovare un posto, ieri sera il tassista che dalla stazione mi accompagnava a casa ha suggerito i test allergologici perché credeva che le mie lacrime fosse un’allergia di stagione. Sono allergica alla malattia di B., sono allergica al dolore che la piega in due. Hanno detto di lei che evoca la divina perfezione: ebbene, Dio è Dio ed è perfetto in ogni cosa. E’ dove c’è vita, e se c’è Dio c’è perfezione. Il tentativo brutto delle cellule folli, putride e impazzite è un’illusione cui non dovremmo credere. Niente è reale. Però.

Ho pensato, e so che sarà così, che questa tua malattia, B., cambierà anche la mia vita. Sono sicura che ciò che accade abbia un senso, per te e per me. Per tutti gli amori che hai intorno. Forse ha un senso che tu non sia riuscita ad andare alla festa della tua amica: ne parlavi da mesi, da mesi eravamo tutti concentrati ad aiutarti perché riuscissi a realizzare il desiderio.

Il fatto è che il senso non si vede, adesso. Bambina grande e bellissima, quando eri rannicchiata sul letto e avevi sollievo per le mie carezze là dove faceva male mi si è spaccato il cuore. Eri così piccola, e tutto mi sembrava ingiusto.

Ma un senso c’è, e lo vedremo.

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Showing 6 comments
  • Lorenza Caravelli
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    E’ raro leggere pagine così. Quanto sobria e consapevole questa scrittura che gronda dolore e grida un’attesa di verità.Quel senso che c’è, e che vedremo.

  • Bianca 2007
    Rispondi

    Ciao MariaGiovanna.Questo tuo scritto ha toccato tutta la piena della mia profondità.E io mi commuovo,sempre, quando sento la passione del cuore,il suo dolore (nello specifico caso),la sincerità.Altro,mi lascia assolutamente indifferente,se non mi procura noia,anche se scritto in modo acculturato e stilisticamente perfetto.
    Spero,voglio dargli le “ali” come feci per altri tuoi racconti che commossero tutta la platea.E questo tu ben lo sai.
    Ti abbraccio,Mirka

  • Tetris
    Rispondi

    “regalarle un luogo che non ha mai visto”… lo hai fatto, lo fai, lo scrivi, lo disegni con la tua bic instancabile e arrabbiata e triste. Fermatici anche tu, solo per un istante. Per lei, per noi, per te, per un Amore che non capiamo ma che deve esistere…

  • Lorenza Bonomi
    Rispondi

    Ho letto queste pagine con la stessa impotenza che tra le righe assale il lettore.Si, un senso c’è e lo vedremo.Nel frattempo però la strada per trovarlo è sempre più in salita.

  • Laura
    Rispondi

    Ho pianto.

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