parole molli una mattina
La penombra. Nella stanza solo una luce gialla e antica, piove dal basso al soffitto e allaga una fetta diagonale che sfila sopra la mia testa. I libri in ordine, l’icona Sant Hubertus rimbalza sgargiante dalla parete appena al di qua della porta. Una stampa in fondo, vicino alla finestra, è appesa storta e sotto, incollato alla cornice, ha un manifesto piccolo di “Science for Peace”. Scorgo i movimenti possibili, sulla cassettiera di L. respira bianca florida e presuntuosa l’orchidea.
Nella stanza di U. c’è attesa. Il cappotto gettato su una poltrona, le carte pronte per la lettura e la firma, la libreria piena, impastata, con le costole verticali e orizzontali e storte. Ho cercato una copia del nostro libro, ne ho trovate due: sfilata in fretta e messa in una busta per un’amica giornalista, quando lo vedrò ritornare gli dirò che l’ho rubata. Vestito di verde e con il camice bianco sopra, sorriderà. Sala operatoria, anche se la leggenda vuole che non operi più da anni. Poi persone, persone, persone.
L’armadio davanti alla mia scrivania e le sue bottiglie. Quattro, cinque litri di acqua. Oggi è giorno di digiuno. L’ho buttato lì per caso, questo digiuno, dopo un pomeriggio di scrittura. Parlavo di alimentazione, salute, malattia e, appunto, digiuno. Ho pensato che forse non ce la faccio, bello sarebbe scoprire che sul corpo riesco a imporre la mente. Digiuno, allora. E su Facebook l’ho scritto, così. Siamo tanti, allora. Oggi tanti digiunano, con il digiuno tipico di U.: un caffè o due, forse una spremuta di agrumi. E basta. C’è chi ha commentato: il digiuno non è sano, non si fa così. Possibile che si debba sempre ricondurre la vita a teoria che qualcuno ha sentenziato aggrappandosi a una pubblicazione remota su dieci pazienti all’ospedale di Calco? Dico Calco perché non ha un ospedale, perché è il mio paese e posso usarne il nome. Il digiuno di oggi è idea, ognuno la gestisce come sa. C’è chi digiuna perché non ama mangiare, chi perché vuole fare come U., chi invece vuole stabilire la propria supremazia sugli istinti. E chi invece farà solo finta. Cosa importa? A stare attenti si trovano tante e tante teorie, tutte perfette, che spiegano che si deve mangiare o non mangiare, bere o non bere, usare proteine o carboidrati o salsa di sanguisuga arrosto. Uno specialista ogni minuto, se si vuole. E’ la tentazione irresistibile di dire la propria, di fare del singolo un mondo. Se ha funzionato con me, con la mia parente Lisa che stava su una montagna a testa in giù…
M. tossisce piano. Vedo il suo computer acceso nello spicchio della porta aperta sulla segreteria. I suoi passi sui tacchi e la voce gentile, attenta a non sbagliare. Vedo la stampante zitta, riposa, e raccoglitori rosso, giallo, verde, blu. Un uomo arriva e dice qualcosa nell’italiano orrendo che non ha mai imparato. Mi chiedo come succeda: gli italiani all’estero imparano subito, gli stranieri colti, iper-laureati che arrivano da noi non ce la fanno. O non vogliono. Parlano italiano come se fosse sempre il primo giorno qui. Mi diverto: lui chiede una cena e M. non capisce, non può capire; sta inventando la parola cena e non gli riesce. “Tra due settimane, circa il ventitré novembre”: oggi è quattordici, in italiano gli vengono male anche i calcoli sul calendario. Però ha messo “circa” e si è salvato. Circa è tutto e niente, circa, ti tira fuori dai guai. Circa.
Scrivo, piano. Nell’attesa di L. prevedo il primo squillo del telefono che aprirà il giorno. Il primo e mille altri, dopo. Scrivo allora, e penso agli insiemi di sillabe da incollare in un blog. U. legge, ogni tanto, è curioso come pochi sanno essere. Spazia nel mondo reale e in quello virtuale, stringe nelle mani e assapora. Forse è questo, forse siamo uniti dalla curiosità feroce. Non è facile per noi guardare: scaviamo, tagliamo a pezzi per tentare di rimettere insieme, esploriamo anche là dove non importa. Osserviamo le persone e ne vorremmo l’anima. Mi succede di accorgermi di relazioni segrete, minuscoli moti della psiche, rabbia o sesso rimossi. Leggo, come legge U.
E scrivo. Ogni tanto mi chiedo perché risuonino scarse parole. E’ che non disperdo più. Ora che la professione è tutta e solo scrittura la pagina bianca non esiste, ma la frammentazione si è persa. Piccoli racconti sono difficili. Quanti anni, mesi, increduli giorni creano distanza dai primi momenti in un blog, dai ragionamenti con piccole amiche su cosa fosse scrivere. Quando diventa professione lo sai, perché cambia. E sei alieno a te stesso, alieno a ciò che gli altri sono sempre stati a meno che non fossero loro a dirti cose che ora, certo, sai. Noto nella memoria i volti di chi nel tempo ha sussurrato o urlato perle di aiuto: scrittori, editori, agenti, lettori. Esistono i lettori? Sono sempre quelli, sempre loro. E non sempre coincidono con gli scrittori. L’unico vero obbligo di uno scrittore dovrebbe essere: sii un forte lettore. O forse no, sia libero anche lo scrittore. Ma la tristezza dello scrittore che non legge ha scarso uguale.
Sopra documenti e un curriculum, la scheda con i bollini per i peluche di mia nipote. Nuvole dense, grigie, fresche sgranate attraverso i vetri scuri. Penombra. Nella testa e sulla lingua poesie.
Camminare, pensare, un velo di trucco sul volto. E scrivere. Scrivendo volo, e penso a un’intervista recente che potete leggere QUI.
Il telefono squilla.
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Ciao bella signora, leggo e ho la presunzione di capire che scrivere per te è vita, tutto diventa pretesto per diventare storia anche una “libreria piena, impastata, con le costole verticali e orizzontali e storte.”
Sono felice di conoscerti, sono onorata (so che può sembrare stupido) di sapere che quando leggi il mio nome lo puoi collegare ad una persona.
Ti abbraccio gioia
Grazie, Lucia. L’onore grande anche mio! Abbraccio
Bello! Brava.Come sempre.Lascio un’abbraccio e mi firmo al completo.MirkaBianca