amputazioni di romanzo 2
Chiuse la portiera e fece scattare l’antifurto con il telecomando. Meno nove gradi. La neve sul tetto della macchina non si era mossa, il freddo la manteneva intatta. Piccoli pezzi di ghiaccio si staccavano dalla carrozzeria con minuti clangori.
– Ehi, Righi, come stai?
– Lucia, bello vederti. Come mai così presto?
Ne aspirò il profumo mentre scioglieva i nodi della pesante sciarpa di lana, aprì la porta e la lasciò entrare per prima. I capelli a boccoli erano fiamme vive.
– C’è una mia paziente che nella notte ha sanguinato un po’. Niente di grave, non è da rioperare ma preferisco vederla subito. Per fortuna mio marito è in viaggio, altrimenti si sarebbe arrabbiato. Detesta che esca prima di lui, è un giovanotto vecchio stile. Colazione insieme e bacio devoto sulla porta, sai.
– Accidenti, l’hai scelto bene. Più giovane di te e innamorato, cosa vuoi di più?
Il verde cupo degli occhi si soffermò nelle sue pupille il tempo necessario per un’intesa inzuppata di ironia.
– Infatti non voglio di più, non ci penso proprio a razzolare in giro. Sei tu a pascolare fuori casa. Hai un gusto spiccato per la scuola di specializzazione, ti appassioni molto quando devi fare crescere un giovane virgulto. Se poi il giovane virgulto ha le fattezze di una strafiga la tua diventa una missione. O sbaglio?
Ignorò la battuta, ne riceveva decine ogni giorno da uomini e donne: gli uomini invidiavano la seduzione palese, le donne forse si eccitavano per l’ennesima relazione erotica che sembrava nascere tra le mura dell’istituto. Cristina sosteneva che alcune di loro sperassero di condividere con Monica la medesima esperienza, prima o poi: se era vero non le aveva ancora identificate. Strada spianata anche per loro, a patto che fossero giovani e sensuali.
Si avviarono nel corridoio centrale, il profumo era dolce, fruttato. Immaginò che fosse il marito a sceglierlo. Lucia aveva il mistero dell’ignoto stampato sulla pelle simile a latte: si imponeva per le forme perfette e l’altezza, e per i colori, ma era impossibile definirla. Diafana eppure solida, carnale. Labbra sottili senza una rima distinguibile dal resto del volto, ciglia folte e sopracciglia curate, la dose giusta di lentiggini e la propensione a distogliere lo sguardo se l’interlocutore si dimostrava troppo attento e interessato, si diceva che nella vita privata giocasse a fare l’arredatrice di giardini e ne scrivesse su un mensile distribuito gratuitamente in zona. Era capace di tirare fuori un capolavoro dal niente, accostava generi e colori e staccava, trasgrediva, affascinava: erano le parole che Cristina aveva usato per descrivere quella sua passione, che le aveva fatto vincere due o tre premi europei. Era brava, insomma, sia nella chirurgia senologica che nel divertimento privato. Non c’era da stupirsi che un giovane uomo in carriera si fosse innamorato tanto da sposarla. Probabile che non dovesse temere il decadimento della vecchiaia: con un corpo come il suo i segni sarebbero stati accettabili, a lungo nascosti. E la vivacità della voce, quasi metallica quando era tesa, non lasciava dubbi sulla voracità delle sue passioni.
– Immagini sempre roba che non c’è.
Margherita avrebbe detto così. Non conosceva Lucia, sapeva niente di lei, eppure le camminava accanto sicuro che la mente stesse partorendo la verità. I gesti, le gambe magre e lunghe sciolte nei passi ampi, i saluti a voce alta quando incrociavano i colleghi erano dolciastri quanto il profumo. Quanto la pelle che avrebbe esplorato volentieri. La pelle era il punto debole del suo erotismo, aveva perso la testa per donne di aspetto mediocre con una pelle morbida, di seta, la cui chimica era irresistibile. Amava accarezzarle piano, le annusava e baciava, infilava la punta della lingua nelle pieghe sottili delle rughe.
Lucia si fermò alla scala mobile.
– Bene, buona giornata allora. Penso che ci vedremo in mattinata, se passi dalla riunione o dal giro visita.
– Ho sala operatoria, difficile che possa farlo.
– Lo so, per questo ti saluto qui. Ma prova a venire alla riunione, altrimenti Monica sarà delusa, fai uno sforzo.
Di nuovo la ignorò, limitandosi a un sorriso. Si divertisse pure a immaginare e tirare conclusioni, male non faceva: costruire fantasie sul sesso era senz’altro più sano che lasciarsi intorpidire da presagi e paure sulla malattia e la morte. L’istituto doveva essere preso sul serio, ma alle dosi giuste. E c’era di mezzo la malattia di Luc van Reijen, perfino gli amori passavano in secondo piano. Luc era nella mente di tutti, spuntava fuori anche quando i discorsi non lo riguardavano. Come una fucilata nel mezzo della loro unione professionale, così assidua da assomigliare a una famiglia, la disgrazia che aveva colpito Luc era devastante, scardinava certezze e insinuava terrore e senso di colpa. Meno male che è successo a lui, accidenti cosa dico? Era la riflessione che più o meno tutti avevano condiviso in segreto, e l’avevano masticata, assaporata fino a farla affondare in un silenzio sollecito, nell’interesse per le sue terapie e per l’esito che avrebbe avuto la malattia. Quando raccontava le proprie speranze annuivano, erano insieme a lui nella convinzione che tutto sarebbe andato bene: a chi mentivano? A lui solo o anche alla propria integrità scientifica?
– Non ci crede nessuno, Cristina. Non se la cava, cerca di svegliarti.
– Perché dovrei svegliarmi, e da cosa? Avremo tempo per piangerlo, ora è vivo.
– E’ un morto che cammina.
Morto che cammina. Maiorini l’aveva definito così, scandalizzandolo. Gli aveva risposto che non erano frasi da usare, e intanto ripeteva la stessa cosa nel cervello. Morto che cammina. Come Giulia, la meravigliosa, perfetta, carnale ed eterea, saggia e simpatica Giulia: morta che cammina. Ma lo stomaco si torceva quando tentava di essere lucido, razionale, cinico. Non con Giulia, con lei non era possibile. E con Luc?
Luc almeno fino a quel momento era riuscito a cavarsela, l’intervento gli aveva portato via il tumore, una parte del pancreas e pezzi di organi interni che lo circondavano, tentava di riprendersi in terapia intensiva e c’erano buone probabilità che si rimettesse in piedi. Per quanto tempo non si poteva sapere, la prospettiva era cambiata poco rispetto alle previsioni iniziali perché l’istologico aveva confermato l’aggressività del tumore e c’era il rischio che si sviluppassero metastasi, comunque anche i più scettici non potevano fare a meno di sfiorare qualche granello di illusione. Chissà che per una volta ci fosse spazio per la vita e non la morte in un caso come quello.
Insomma, che a lui piacesse Monica e fosse ricambiato era noto ma se ne fregavano. Non che importasse, in realtà. L’istituto era pieno di storie e relazioni, non facevano notizia. Se si fosse deciso a invitarla a cena e se davvero fosse nato qualcosa di più solido rispetto a tre sguardi languidi e le frasi solite del gioco del preludio i sussurri sarebbero diventati grida, il novanta per cento della gente avrebbe giurato di conoscere un dettaglio in più e in una o due settimane avrebbero dimenticato. Cioè la relazione con Monica sarebbe entrata nell’elenco ufficiale dell’istituto e avrebbe perso il fascino.
Il sibilo delle porte dell’ascensore, lo strappo ovattato della partenza. Al secondo piano scese, cercò in tasca le chiavi dello studio.
– Professore, il marito della duecentoquattro vuole parlare con lei.
– Chiamala per nome, Sonia Alberghetti. Non è la duecentoquattro, è Sonia Alberghetti. Se i pazienti sentono che li chiami come se fossero numeri non lo apprezzano. Quante volte devo ripeterlo?
– Scusi, ma è più pratico. Poi come facciamo a ricordarci tutti i nomi?
– I tuoi colleghi li ricordano meglio di me, li imparano al volo e non se li scordano più. Sanno dirti chi ci fosse nella duecentoquattro una settimana, un mese fa. Vuoi scommettere?
L’infermiere alzò le spalle. Era nuovo, arrivato da tre o quattro settimane. Giuliana riteneva che fosse in gamba, anche se privo della capacità di comunicare. L’aveva paragonato a Maiorini: uno che è speciale quando cura i pazienti ma deve tacere altrimenti fa danno.
Infilò il camice, controllò l’orologio. Il secondo intervento era suo, aveva tutto il tempo. Si diresse all’infermeria e rispose ai saluti chiedendo notizie della notte appena trascorsa.
– Tutto bene, professore. Una paziente ha sanguinato un po’ ma ora è a posto. L’unica difficoltà vera è la ferita della Alberghetti. Non abbiamo chiamato il medico di guardia perché non è particolarmente gonfia, ma la paziente è preoccupata e il marito ha chiesto più volte di lei. Il problema è il marito, non la paziente. Si è arrabbiato perché non l’abbiamo chiamata a casa, ma le assicuro che non ne esisteva motivo. Ha fatto la notte in piedi, ha tenuto sveglia la moglie e la controllava ogni cinque minuti, quella povera creatura non ha avuto pace.
– Immagino. Lo so, è una donna molto carina ma ha un marito ossessivo. Anche in visita mi ha fatto perdere un’ora. Ora vado, avete la cartella?
Lesse i commenti degli infermieri in turno di notte.
– Giardina, hai visto tu la ferita?
– Sì, professore.
– Come la trovi?
– Beh, mi sembra che possa avere sanguinato un piccolo capillare. Tesa, infiammata ma non troppo. Ho messo una medicazione compressiva, per sicurezza.
– Fatto bene, brava.
Nella duecentoquattro la penombra nascondeva i contorni, le ombre erano sfumate come la luce tenue che si infilava nelle fessure strette delle persiane. Un uomo si alzò dalla poltrona.
– Professore buongiorno. Venga, siamo preoccupati. Non ci hanno detto niente. Siamo all’oscuro di tutto, nessuno ci dice niente.
Lo salutò e si avvicinò al letto. Era certo che non fosse vero, gli infermieri li avevano informati e avevano spiegato cosa stesse accadendo, ma era normale che fingessero con lui. La comunicazione poteva avere un’efficacia diversa in base a chi la porgeva. Le ricerche del Customer Service dell’istituto servivano a poco, solo chi lavorava a contatto diretto con i pazienti avrebbe potuto spiegare le dinamiche del rapporto complesso e vario che si instaurava. Pazienti e familiari chiedevano conferme e informazioni, di solito ripetevano le stesse domande a più persone e puntavano in ogni caso al medico più alto in grado o a quello con la faccia più seria e il camice pieno di stilografiche nel taschino. Il peso della voce, delle parole era differente. Se il chirurgo era una donna era probabile che si chiedessero conferme a un uomo, se era giovane si sentiva la necessità di interpellare un collega più anziano.
Tolse la medicazione, sfiorò la pelle intorno alla sutura.
– Sta andando bene. Penso che abbia sanguinato un piccolo vaso capillare. Durante l’intervento i vasi sanguigni che si devono recidere si chiudono con una legatura o l’elettrocoagulo, oppure con una clip metallica, ma ne esistono alcuni molto piccoli che non si vedono, anche se si rompono smettono da soli di perdere sangue. Può capitare che nelle prime ore dopo l’intervento la ferita si gonfi perché si accumula sangue proprio da questi piccoli vasi.
– Cosa bisogna fare?
– Esattamente ciò che è stato fatto, una medicazione compressiva. Premere sulla ferita perché l’eventuale vaso aperto si chiuda, se si avvicinano tra loro le pareti la coagulazione fa il resto.
– Però è venuta solo quella ragazza, ha messo lei le garze.
– Maria Cristina Giardina? E’ un’infermiera, cioè una professionista con la laurea. Gli infermieri sono laureati e perfettamente in grado di occuparsi di medicazioni come questa. Anzi, spesso hanno una manualità migliore rispetto ad alcuni medici. Hanno la mia fiducia totale.
– Non volevo dire che… Ma adesso ha tolto la medicazione, cosa succederà?
– Niente di grave. Ha preso un po’ di aria, voglio vederla bene poi rimettiamo una medicazione compressiva, anche se secondo me non serve più. Ha smesso di sanguinare.
– E se si dovesse rioperare?
Alzò la testa, nella penombra riuscì a bloccarlo con uno sguardo. Lo vide indietreggiare di un passo. Non lasciava spazio alla moglie, Sonia non aveva ancora posto domande, apriva la bocca per parlare ma il marito la sovrastava, tirava fuori parole in fretta come se il problema fosse suo.
– Non è da rioperare. La decisione è mia, non si deve operare. Non serve riaprire per cercare il vaso che ha sanguinato. E adesso sentiamo Sonia, visto che la ferita è sua. Ha qualche domanda, come sta?
– Sto bene, non mi fa male. Sono solo stordita, ho dormito poco.
Non si stupì. Il marito doveva essere rimasto all’erta ogni minuto, chino su di lei per osservarla. Come stai? Cosa senti? Ti fa male? Ti sembra che sia peggiorata rispetto a tre minuti fa? Chissà quante volte le aveva impedito di addormentarsi per placare la propria ansia. Vegliava come se da ogni respiro si aspettasse la tragedia, e il peggio era che non era capace di tenerla per sé, quell’ansia. Aveva bisogno che fosse lei a rassicurarlo rispondendo a continue sollecitazioni che non facevano altro che turbarla. Alcuni uomini erano così, non si rendevano conto di suscitare l’angoscia di chi stavano provando ad aiutare; in realtà cercavano conferme per sé, e credevano che anche le mogli ne traessero beneficio. Le spiegò di nuovo quale intervento avesse ricevuto e in quanto tempo sarebbe ritornata alla vita normale.
– Poi dovrà dirci quali controlli dovremo fare. Mi raccomando, professore, non ci abbandoni.
Ancora lui. Non ci abbandoni, retorico e sgradevole. Come se fosse scontato che usciti dall’istituto sarebbero rimasti soli. Dovette reprimere l’insofferenza, esercitò uno sforzo ulteriore per sorridergli.
– Sonia verrà al controllo tra sei mesi, intanto le avremo prescritto la terapia che riterremo adatta. Di volta in volta le suggerirò gli esami da fare. Sul mio biglietto da visita trovate i contatti con la segreteria e il mio indirizzo email personale. Rispondo sempre, leggo i messaggi su un palmare che porto con me. Stia sereno, non sarete abbandonati. Oggi però è importante che sua moglie si riposi, che sia serena. L’intervento è andato bene e il linfonodo sentinella sano è una notizia ottima.
– Non dovete preoccuparvi, Sonia è forte. Se per aumentare la protezione dovrete prescriverle la chemioterapia fatelo, noi siamo assolutamente d’accordo.
– Luigi…
– Lascia parlare me, amore, è giusto così. Non devi avere paura, so che stai pensando ai capelli. Lascia perdere, sono sciocchezze. Più forte è la cura più la probabilità di guarigione è alta, vero professore? Cosa vuoi che siano i capelli, quelli ricrescono.
– Senta, andiamo piano. La chemioterapia si prescrive quando serve. Cioè se si comprende che la protezione sarà effettivamente più alta. La perdita di capelli non è una sciocchezza e non la banalizzerei, è un effetto collaterale sgradevole che a volte non si può evitare. Vedremo. Adesso non sappiamo cosa prescriveremo a Sonia. Aspettiamo pochi giorni, quando l’istologico sarà pronto ne riparleremo. Intanto tengo a sottolineare di nuovo che il linfonodo sentinella fosse sano.
– Certo, certo. Siamo contenti. Il fatto è che su internet ho letto che in alcuni casi il sentinella non è attendibile.
La mano di Sonia strinse la sua in una contrazione involontaria di terrore. Dovette aumentare lo sforzo per rispondergli con educazione.
– Circa nel quattro per cento dei casi può esserci un falso negativo, cioè il linfonodo sentinella sano nasconde in realtà la presenza di cellule tumorali in altri linfonodi dell’ascella. Ne abbiamo parlato ieri. Questa percentuale è molto bassa e in ogni caso le cure che prescriveremo in futuro…
– Ma sì, professore, lo sa. Luigi è un po’ nevrotico, ripete sempre le stesse cose. Sono io a non volere sapere adesso, ho capito che ho avuto un tumore e l’ho preso in tempo. Il resto si vedrà. Non posso permettermi di immaginare che il mio linfonodo sentinella rientrasse nel quattro per cento di errori, di falso negativo. Voglio essere nella maggioranza, tra le donne che guariscono. Dai, Luigi, lasciaci un po’ di aria. Se vuoi parlargli ancora di cancro, chemioterapia e linfonodi uscite dalla stanza. Professore, la ferita allora è a posto?
Chino su di lei ne aspirò la paura e la rabbia. Stava accadendo che con suo marito aveva perso l’intesa, o forse non l’avevano mai avuta. Mutavano le priorità, si perdevano i termini. Sonia sperava in un aiuto bianco, Luigi ne offriva uno nero. Sarebbe passato tempo prima che le cose si aggiustassero.
Avvicinò il palmo della mano alla sutura, un paio di volte passò a pochi millimetri dalla pelle.
– E’ calda, sento la sua mano calda. Che sollievo. E’ una sensazione bellissima, come quando mi ha visitata.
Non si fermò: con la sinistra premeva leggero nei punti che sembravano più gonfi, con la destra approfittava di passaggi casuali per dare tocchi prolungati e morbidi. Gli occhi si spostavano all’ascella, poi ritornavano al seno ancora bruno per il disinfettante. I lembi della ferita erano accostati, la sutura intradermica allineata e coperta con cerottini strip incrociati per tutta la lunghezza. Una sensazione lieve, fluttuante indicava la presenza di una piccola quantità di liquido ma il colore e la cedevolezza dei tessuti indicavano che il sanguinamento era terminato. Non si sarebbe complicato.
– E la ferita della biopsia del linfonodo sentinella?
– Non c’è. L’ho tolto passando attraverso l’incisione sul seno.
– Accidenti, meno male, un taglio in meno. E quando dovrò togliere i punti?
– Niente punti. Si usa un filo riassorbibile per la parte sottocutanea, poi si chiude la pelle con un altro filo riassorbibile. In questo modo avremo un effetto positivo sull’estetica, tra qualche tempo non si vedrà quasi più. I cerottini che vede rinforzano la chiusura, dureranno circa quindici o venti giorni. Le medicazioni serviranno a controllare che tutto vada bene, non a togliere punti che in realtà se ne vanno da soli.
– Cosa dovrò fare io? Disinfettarla tutti i giorni?
– Luigi…
– Lasciami parlare con il professore, non posso dire niente?
– Sonia sarà medicata da noi o dal suo medico di medicina generale. Resista alla tentazione di disinfettarla perché applicare liquidi significa fare sciogliere la sutura più in fretta. Se si bagna troppo si apre, lasci che ce ne occupiamo noi.
La luce improvvisa che riempì la stanza lo colpì. Si ritrasse, brusco.
– Oh, scusi professore. Credevo volesse vedere meglio.
– Giuliana, è lei. Ero concentrato. Venga. Conoscete la nostra caposala, vero?
– Sì, sono venuta a vedere come va. Ma guarda quella ferita, migliora a vista d’occhio! Passato tutto, Sonia, hai visto?
– Dice?
Sonia piegò la testa per guardare, la sorpresa e il sollievo le provocarono un singhiozzo.
– Luigi, guarda! Va molto meglio, non sembra la stessa ferita di questa notte!
– Professore, è incredibile. Ha ragione, quella medicazione compressiva è stata prodigiosa. Non è nemmeno più gonfia.
Sorrise, inspirò a fondo. Ritrasse le mani.
– E’ normale. La reazione normale della pelle giovane e sana. Poi le cose viste di notte sembrano sempre peggiori. Allora vi lascio con Giuliana che si occupa della nuova medicazione. Vado in sala operatoria, ritornerò più tardi.
– A che ora?
– Non so dirle, verrò da sua moglie a fine mattina ma dipende dagli interventi.
Con una piccola carezza sulla mano di Sonia uscì, grato a Luigi che aveva represso la tentazione di raccomandargli ancora di non dimenticarsi di loro. Appena fuori fece scivolare la mano in tasca e trovò il cellulare. Tre sms e cinque chiamate. “Dove sei? Perché non rispondi? Non avevi detto di non avere sala operatoria?”, “Allora mi chiami?”, “Chi è di turno questa volta, guarda che telefono alla tua segretaria e ti sputtano, le chiedo se sei davvero in istituto”. Margherita si era alzata male, succedeva spesso. Se per dormire prendeva un calmante apriva gli occhi la mattina successiva e scaricava una rabbia violenta, incontrollabile: a questa regola non esisteva eccezione, un collega neurologo lo aveva definito un effetto paradosso delle benzodiazepine. Che fossero le benzodiazepine con un effetto paradosso o meno, le cinque chiamate erano tutte sue e gli sms indicavano che era una brutta giornata. La chiamò.
– Dove cazzo eri?
– Amore, calma. Stavo visitando una paziente che…
– Eh, figurati. Non hai mica ambulatorio la mattina.
– Ero in camera, una paziente notte scorsa ha sanguinato un po’.
Non durò molto. La gelosia di Margherita era possesso, non aveva altra base. In fondo le importava poco dove fosse e con chi, voleva solo essere certa che non stesse togliendo a lei la supremazia. La presenza assoluta. E aveva la necessità di vomitare fuori il torrente nero di una furia la cui origine era sconosciuta, la portava dietro da sempre. Anni di psicanalisi erano serviti a renderla più forte, ma ancora non avevano smorzato gli attacchi feroci di insicurezza che avevano minato la loro relazione più di qualsiasi scappatella o noia. Nei primi tempi gli eccessi passionali di sua moglie l’avevano travolto, erano stati il combustibile di un desiderio appagante, poi l’equilibrio si era rotto. Non si dovrebbe mai sposare una donna così, dovrebbe restare un’amante da vedere spesso ma con qualche chilometro di distanza nelle pause. Le fece ascoltare le voci in segreteria, camminò con il cellulare all’orecchio fino alla sala operatoria, nello spogliatoio tolse camice e vestiti senza interrompere la conversazione; sentiva sciogliere la rabbia, si acquietava grazie alla sua voce. Poi attese il momento propizio e, in tuta verde e pronto per l’intervento, la salutò.
– Ciao amore mio, ti chiamo presto. Vado in sala operatoria, la paziente già dorme.
Spense il telefono e raggiunse la sala sette, accarezzò il volto della donna sul lettino e le assicurò che tutto sarebbe andato bene.
– Immagini ora un ambiente meraviglioso, un prato o il mare o il luogo che la rende felice. Quando riaprirà gli occhi avremo già finito. Forza, conti con me. Uno, due…
– Andata. Forza, Righi. Siamo pronti.
Con la mascherina chiusa sul volto grattò la pelle delle mani con la spugnetta, insaponò e massaggiò a lungo chiacchierando con i due aiuti. Poi fu vestito con il camice sterile e i guanti. In piedi di fianco al lettino, controllò il lato dell’intervento e gli esami sul diafanoscopio. Un’infermiera ripeté a voce alta nome e cognome della paziente, data di nascita, nomi dei chirurghi, dell’anestesista, della strumentista e dell’infermiera di sala, la diagnosi e l’intervento da eseguire. Il campo operatorio era già stato disinfettato dagli aiuti.
– Prego, professore. Pronti.
Per un attimo esitò, si era ricordato della riunione per il budget alle sei del pomeriggio, detestava quegli incontri. Aveva rimosso il ricordo dell’impegno, accidenti. Sperava che fosse la volta buona per invitare Monica a bere qualcosa fuori. Scacciò il pensiero, non era il momento. Respirò due o tre volte, svuotò la mente.
Allungò la mano avanti, a palmo in su.
– Bisturi.
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quando leggo quanto tu scrivi… io respiro… grazie!
grazie a te!
Mi sembrava di essere lì. Sei fantastica, leggerti è sempre un’emozione
Grazie, Lucia. Ho terminato le correzioni alla bozza del romanzo, sta nascendo. Ho tratto dalla realtà astrazioni, la storia è un’invenzione (non mi piace la parola e comunque nessuno crede mai, a priori, all’invenzione totale dello scrittore che si avvicina tanto alla realtà). Invenzione con le radici in una verità che può riguardare tutti e ha addirittura più sfumature, variabili e sfaccettature di ciò che la scrittura crea.
Troppi nomi per la mia testa,MariaGiovanna,anche se è scritto bene e in modo realistico.
Complimenti e un abbraccio,Mirka
E’ tratto dal romanzo, Mirka. I nomi sono tanti per forza. Leggendo il romanzo sarà più chiaro. Un abbraccio