un divano, due divani, tre divani

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poltronaUn divano, due divani, tre divani. La luce piove dall’alto, da un gigantesco buco tondo che non è un buco: è un’illusione, nel soffitto hanno scavato uno spazio ovale e l’hanno riempito di lampadine piccole, accese una sì e una no. Potrei contarle, ho tempo. La signora seduta a qualche metro, su un altro divano, sfoglia un giornale e non si accorge delle briciole sulla manica della giacca: ha divorato un paio di brioche, le ha tolte da un sacchetto di carta bianco e le ha mandate giù spezzandole a bocconi grossi, senza masticare. Aveva gli occhi in giro, come se fosse colpevole o non volesse essere notata. Non credo si sia accorta del sapore. E non si è accorta della goccia di marmellata arancio al lato delle labbra, e delle briciole sulla manica della giacca. Non posso dirle niente, si offenderebbe. Con le donne è così difficile indovinare quando parlare e quando stare zitti. Oltretutto non sembra che le importi: ha messo la giacca perché è la prima volta che è qui, deve vedere uno dei primari e si sente intimidita: l’ha sussurrato a qualcuno al telefono, un’amica (forse) che avrebbe dovuto accompagnarla ma all’ultimo ha perso il treno. Il primario è uno che sta spesso sui giornali, ha operato anche una cugina di non so chi: era incinta quando le è venuto il cancro, adesso sta bene. La signora spera, spera tanto che… Non sono andato avanti ad ascoltare, tanto sono sempre le stesse cose. Non metterà più la giacca quando arriverà per l’intervento, e se dovrà fare chemio non le importerà di chi la nota mentre manda giù due o tre brioche sporcandosi la manica e le labbra.

A me non va di mangiare. Mi hanno detto che posso farlo, tanto i primi esami, che richiedevano il digiuno, sono terminati. Ho avuto la visita con la dottoressa riccia, piccola e gentile: pare vada abbastanza bene, i valori dell’emocromo sono risaliti e potrò avere un’altra seduta di chemio. Non so se sono contento, non me lo chiedo. Quando entri in questo posto smetti immediatamente di porti domande: ti dicono, e tu fai. E basta. Quindi non so dire se sono contento o meno di una nuova chemioterapia, ma forse sì, altrimenti cosa farei su questo divano steso ad aspettare? Non ho alternativa, l’unica che esiste non è accettabile perché il tumore è cattivo e non molla, non posso mollare nemmeno io.

–          E’ suo, il libro?

La donna indica qualcosa sul tavolo basso che ci divide, dico di no ma solo con la testa. La voce non esce. E’ passata una dottoressa, circa un’ora fa: ha distribuito libri sui tavoli con un sorriso, si è capito che fossero un regalo. Come i giornali nelle bacheche: sono lì per noi. Un gesto gentile, se non fossero giornali tutti uguali e se solo a me venisse la voglia di prendere in mano un libro e curiosarci dentro. Non so come facciano gli altri, quelli che si abbandonano alle chemio sdraiati sui lettini con un libro nella mano libera. Sfogliano le pagine, arrivano a metà o a tre quarti, alcuni di loro si mangiano un libro intero durante la seduta. Leggono davvero. Io non ce la faccio. Non che ci abbia mai provato: so che è così, non ho bisogno di fare la prova. Neanche la Gazzetta mi resta in mano, guardo le figure e scivolo sulle parole senza soffermarmi, poi la butto a un lato e lascio a chi la vuole. Di solito sono i sani a prenderla, i mariti della pazienti in visita. O i figli.

A proposito di figli, settimana scorsa ne è capitata una divertente. Vado a ritirare l’auto al parcheggio e noto il figlio di una donna che fa la chemio quando la faccio anche io: paga ed esce da solo, senza la sua mamma. Chissà, mi dico, forse l’hanno tenuta in ospedale fino a domani. Poi vedo che rallenta, appena fuori dall’ospedale dietro la curva fa segno alla prostituta giovane con i pantaloncini bianchi e la fa salite in macchina. Ho riso. Chiamalo scemo, quella lì ha proprio un bel posteriore! Non ci ho mai pensato, non mi è venuto in mente che qualcuno potesse farlo. Eppure le donne mi sono sempre piaciute, e non mi sono fatto mai problemi con quelle che trovavo in strada: quando sei solo e non ti vanno le menate sono le migliori. Ma niente, in queste settimane di chemioterapia mai una volta ho considerato l’idea di fermarmi e caricarne una.

–          Ha voglia di fare l’amore?

Un volta la dottoressa bionda con il naso grosso, simpatica e goffa quando cammina, me lo ha chiesto per capire se fossi depresso. Lì per lì credo di essere diventato rosso, mi è sembrata una proposta erotica. Poi ho tagliato corto con una battuta: “Fosse per me, guardi… A ogni ora. E’ mia moglie che…”. Balle. Mia moglie lo farebbe, sono io che non riesco. Mi sono fatto due o tre fantasie per provare a eccitarmi, ma con lei non riesco più. Non è questione di amore, credo, è che ho bisogno di uno stimolo più forte e sono troppo stanco per andarmelo a cercare.

–          Nel caso, sappia che non esiste un male nel chiedere aiuto. Oppure, semplicemente, nel cambiare partner o desideri.

Scaltra, la dottoressa. Ha centrato in pieno. Cambiare partner, ma se lo facessi Marta mi scoprirebbe subito. Eppure con la donna giusta ritornerei me stesso. Ritornerei un uomo. Bah, a chi importa? Sono qui in ospedale, ho il cancro e di scopare me ne frego.

Un divano, due divani, tre divani. Qualche tavolo basso con il ripiano di vetro, l’edicola che vende perfino gli occhiali da lettura, la bacheca di una fondazione e i medici e gli infermieri che passano in fretta con il camice addosso. Ogni tanto prendono un caffè al volo, è raro che siedano ai tavolini del bar e, se lo fanno, vanno via dopo cinque, sei minuti al massimo.

Ho visto un’ambulanza fermarsi davanti a questa hall, un tizio vestito di nero con la scritta “security” sulla maglia ha indicato il passaggio a destra.

–          L’altra hall, non qui.

Ambulanze nella hall B. E il carro funebre? Beh, deve andare da qualche parte dietro, in un tunnel sotto l’ospedale. E’ blasfemo pensare di morire dove tutti si dannano per ridarti la vita. Quando entra un carro funebre i tizi della security sembrano impegnati a farlo sgombrare subito, perché noi pazienti non dobbiamo accorgerci. Non dobbiamo pensare che qui si possa morire. Mi ricordo la prima volta che sono sceso per la radioterapia: seguivo le indicazioni come mi avevano detto di fare, la luce non pioveva dal soffitto ma arrivava in su, dal pavimento. Cartelli tutti uguali, i caratteri grandi a dire “Medicina Nucleare”, “Radioterapia”, “Radiologia”: solo uno è diverso, piccolino e un po’ nascosto. “Camera mortuaria”.

–          Pensare alla morte è comprensibile. Capita a tutti, e a chi come lei si trova a combattere con un tumore più che ad altri. Ma sono sicuro che abbia tanti motivi per pensare di più alla vita, a ciò che ha, ai motivi per restare qui.

Un infermiere ha detto più o meno così una volta. Ho tentato di parlare della morte, e non so perché. Mi sentivo giù, la TAC non era andata bene e speravo che qualcuno mi spiegasse come si faccia a lavorare qui dentro senza frantumarsi, senza andare a casa ogni sera con la voglia di suicidarsi oppure di scappare e non ritornare più. Possibile che stringere le nostre mani, guardare i nostri occhi, ascoltare le nostre paure non contagi anche loro? Possibile che medici e infermieri, chi lavora all’accettazione, chi fa le pulizie, chi apre e chiude le porte sia contento di questo pianeta alieno? Eppure sorrideva, l’infermiere: voleva che mi ricordassi della vita e non della morte. “Scommetto che ha tanto amore per qualcosa, per qualcuno: si aggrappi a quell’amore e affronterà meglio le cure”. In quanti hanno già detto la stessa cosa? Gliela metteranno nel contratto o la pensano davvero?

Si aggrappi a quell’amore. Come fanno loro, forse. E’ l’amore che spiega la loro resistenza in un ospedale che cura il cancro. Come faccio io quando accetto un’altra chemio e lo faccio per Marta. E per il mio cane che ogni sera fa le feste quando mi vede rientrare a casa.

Un divano, due divani, tre divani. E quasi ora. Meglio che smetta di pensare e salga in reparto.

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Showing 4 comments
  • lucia
    Rispondi

    Conosco la poltroncina a righe della foto, conosco le sensazioni che hai descritto, conosco te che scrivi di questi momenti e ci sei d’aiuto più di quanto tu possa immaginare. Ti voglio bene.

    • MariaGiovanna Luini
      Rispondi

      Sono istanti, riflessioni. Potrei dire “fantasie” perché non li riconosco come ritratti. Persone possibili che, forse, esistono senza che le abbia incontrate. Provare a mettersi nella testa di qualcuno che non conosciamo e che sfioriamo appena, è una specie di odore di verità. Immaginato.

  • Laura
    Rispondi

    Cara Maria Giovanna, non sai come siano vere le tue parole, ho pianto nel leggerle, non perché mi sia rattristata, ma per ila commozione che possa esistere una persona che sa descrivere e partecipare paure, dolori, emozioni così profonde e, a volte, inesprimibili.

    Laura

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