parole tirate là nella mattina
Non sempre si scrive per gli altri, non sempre si scrive per sé. O forse è tutto sbagliato, forse scrivere è un mistero così fitto e profondo da rendere illusorio ogni tentativo di dare una definizione: oggi non ho il desiderio, non ho la concentrazione per dare retta alle definizioni, che sono tante quante sono le menti attive o anche solo mediamente sveglie ogni giorno. Si vive di definizioni, si vive di parole. Parole che stracciano il silenzio necessario per scrivere, per esempio: per un destino bizzarro da questa mattina prestissimo tento di iniziare a scrivere qualcosa, mi sono creata la nicchia utile e necessaria ma un mare turbolento di gente penetra, spezza, frantuma la mia pace e l’ispirazione che quindi sfugge e si richiude, e genera rabbia. Poche volte capita così: ho una concentrazione facile, soprattutto riesco a tirare via la testa e il cuore da ciò che l’ambiente vorrebbe impormi, ma oggi no. Oggi mi arrabbio facilmente e non mi diverte chi scherza, non mi diverte chi chiede di vedermi, non mi diverte essere pubblica. Pochi sono pubblici quanto me, e non alludo a una notorietà che mi interessa niente: alludo a quante richieste di presenza, parole, vicinanza ricevo, e quanti sì sono preparata a dire. Che i miei “sì” siano troppi è noto da tempo, forse è meno noto che esistano giornate come quella di oggi: mi crea fastidio perfino il dling della posta elettronica, figuriamoci cosa succede quando qualcuno entra nello studio e decide di parlarmi. Magari senza avere argomenti (chi parla senza argomento è onnipresente, avete notato?). Oggi amerei la compagnia di esseri silenziosi e partecipi, gente che sta bene in sé e non ha bisogno di domandarmi eterni, ripetuti cenni di entusiastico ascolto. Non stupisce che mi piacciano gli uomini che sembrano burberi e ritrosi: nella loro ritrosia c’è qualcosa di sensuale, una quiete stabile che viene voglia di esplorare.
Sarà che anche le persone aperte, le persone pubbliche (nel senso della disponibilità) hanno bisogno di silenzio: devono mangiarlo il silenzio, odorarlo, usarlo per ritrovarsi. Le pause – che pause non sono ma creano, loro sì che creano sul serio – sono cibo e vita, sono nutrimento per l’amore che poi si riesce a dare agli altri. Perché se non ami te stesso, prima, non sei capace di amare gli altri. Un po’ come quando ti arrivano i messaggi dei pazienti: sai che contengono più di quanto dicano, sai che la paura e l’angoscia e la rabbia e la speranza gonfiano le frasi, piazzano le virgole là dove hanno un significato tutto personale, ma non sempre hai voglia di tirare fuori l’angelica disponibilità a metterti da un lato per esprimere solo ciò che i pazienti vorrebbero da te. Non piace quello che sto dicendo? Non deve piacere per forza, ma è così. Riconosco uguali e pieni diritti a medici e pazienti, non ritengo che esista qualcuno che abbia più diritto degli altri e, per l’amore che provo per le persone in sé, non attribuisco a una malattia il potere di rendere intoccabile, saggio a priori, perfetto qualcuno. Chi mi conosce come medico sa come lavoro e quanta passionalità ci sia in ogni gesto che compio: chi non lo sa decida in libertà se credermi o meno, adoro la relazione che si stabilisce nella mia parte di vita da medico. Ma adorare non significa abdicare a se stessi o farsi trascinare nella retorica cinguettante di una poetica della malattia che non mi appartiene, e che mi auguro non appartenga mai a voi che leggete. Se ne sentono, se ne leggono troppe e troppo grosse per accettare a mente ferma che chi si ammala diventi un essere che ha ragione a priori, oppure – viceversa – che chi si prende cura abbia ragione a priori. La ragione a priori non esiste, come non esistono, lo ripeto, diritti superiori per l’uno o l’altro in nome dello stato fisico o di una specializzazione in chirurgia. Già sarebbe meraviglioso se avessimo tutti i nostri diritti riconosciuti in pieno, nelle nostre diversità e nella peculiarità di ciascuno, figuriamoci poi se ci mettessimo a stabilire una gerarchia di chi più merita rispetto agli altri.
Ma sto divagando, prendo vie che seguo poi abbandono quando incontro altro. Come accade qui, nei corridoi e nello studio con la scrivania e il mazzo di rose gialle sulla mensola di fronte: qualcuno chiacchiera in un telefono mentendo da questa mattina sulle condizioni di salute di un assente (esistono argomenti che da quindici anni intuisco e annuso prima degli altri, e da quindici anni fingo di credere alle stupidaggini che tentano di raccontarmi), un camion schiaccia l’erba nel parco fuori dalla portafinestra per scaricare non so cosa. Una donna è entrata e uscita, ha posato una brioche sul mio tavolo in un gesto affettuoso che ho apprezzato. Due borse giacciono flosce accanto al mio braccio. Voci, richieste, pensieri. Meno di tutto amo le bugie, anche se sono innocenti e necessarie (per gli altri, non per me che preferisco i silenzi): le trovo insulse quando poco creative. Da bambina e da adolescente raccontavo un sacco di bugie, avevo una mia realtà parallela che diventava vita vera quando la ri-creavo per il mondo intorno. Nei fatti mi si può chiamare bugiarda, nella mia visione di oggi ero già la narratrice che tentava di liberarsi dalle aspettative altrui per diventare ciò che voleva essere. Ci sono mai riuscita?
Getto sguardi ai messaggi email, infastidita. Ho un libro da iniziare a scrivere e un altro che ho accettato di preparare ma credo butterò via: non mi è piaciuto l’incontro con l’editore. É un peccato perché la prima volta ero uscita contenta, soddisfatta. Avremmo dovuto restare voci, parole lontane fino alla stesura definitiva del libro. Stabilisco regole di comportamento e le trasgredisco, ritorniamo al problema dei troppi sì. Perché finalmente non decido di dire “no” quando mi va di restare nell’ombra di un silenzio che mi aiuta a creare?
Voci, voci, voci. E niente dietro. Forse per questo prediligo la scrittura rispetto alla telefonata: se scrivi hai più tempo per riflettere, per trovare il momento giusto. Detesto chi mi propone di sentirci per telefono usando un sms o un messaggio email: qui sto andando oltre, ormai calata in una specie di diario che so che condividerò e buona notte. Trovo orribile ricevere email che recitano, più o meno: “a che ora possiamo sentirci per telefono? Dovrei chiederti una cosa”. Oppure, peggio: “Bene, allora siamo d’accordo per il giorno X alle ore Y. Per accordi precisi ci sentiamo al telefono”. Bene, che il mondo sappia – anche se non gli interessa – che chi fa così ha una probabilità di farmi sparire dal suo orizzonte pari al novanta per cento. Il dieci per cento che resta è la probabilità che al telefono io ci sia, ma rabbiosa e ostile. Anni fa mi sentivo in colpa, oggi no. Esiste la scrittura e di scrittura vivo, non esiste ragione per rinunciare a ciò che sono.
Cosa ho detto, oggi? Niente. Ho spalancato la finestra e lasciato entrare il gelo. Amo l’aria fredda perché risveglia e ricorda che siamo vivi. Un angelo mi guarda, un altro ammicca alla destra della tastiera. Le rose gialle resistono anche se da giorni le tengo ritte in un vaso di fortuna ricavato dal fondo di una bottiglia: ho diviso la mia acqua con loro, ieri, metà a loro e metà nel mio bicchiere. Ricordo quando Oriana Fallaci fumava e camminava davanti alla mia scrivania: la cenere nel mio bicchiere, l’odore della sigaretta che non andava via. Ah, le mie rose gialle. Loro sono simpatiche: mute e belle, imperfette e sagge. Le saluto insieme a voi.
Che ne è del tempo trascorso tra le folate di vento gelido, sotto la pioggia fredda e battente, del tempo in cui non mi faceva ammalare tutta l’acqua che mi inzuppava i vestiti e col vento penetrava sotto la maglia fino alle ossa? In silenzio, nel buio della mia stanza lo rivedo quel tempo, lo sento, mi sfiora, mi palpa, mi accarezza e mi abbraccia e mi sorride dicendomi che la malinconia non deve accompagnare i ricordi, ma la serenità d’aver vissuto quei momenti magici e felici. Ci sono giorni in cui ho necessità di ritrovare quel tempo e non posso, non mi è permesso, mi invadono altri pensieri, mi scuotono altre persone con gli occhi che mi cercano, mi vogliono. Lascio che sia il presente a prendermi, a soddisfare gli altri e lascio cadere come goccie di rugiada la mia necessità.