a Mario Sideri, e a Giovanna-paziente e Giovanna-medico

 In la posta del cuore (?), poesia, Racconti

Mario-SideriUna scrittura lenta, per una volta. Lenta perché difficile, lenta perché non può scivolare su un terreno sdrucciolevole. Non sono sicura che sia il momento adatto: me ne accorgerò andando avanti, credo, e forse qualcosa mi fermerà e sarà un moto interno oppure uno dei tanti segnali esterni che qualcuno chiamerebbe coincidenze. Vedremo.
Penso che nel proprio blog sia lecito lasciarsi andare a una varia forma di diario, ma quando di mezzo c’è il dolore e ciò che nasce da un trauma profondo è utile spostarsi più in là. Farsi di lato, in un certo senso, capire se e quando e dove esista un messaggio (almeno uno) degno di essere condiviso al di là delle parole che sempre affollano il cuore e la mente durante un lutto.
Nel 2008 ho raccontato a OK salute (RCS) la mia esperienza con il Papillomavirus e una precancerosi piuttosto estesa: l’ho fatto perché ero convinta che servisse a motivare tante donne ancora restie a sottoporsi agli esami giusti e, là dove utile, alla vaccinazione contro HPV. Mi era capitato che un PAP test non fosse significativo ma che gli occhi del mio ginecologo avessero colto una macchia “che non gli piaceva”, e quegli occhi mi hanno salvato la vita. Il ginecologo si chiamava Mario Sideri.
Non amo i ragionamenti a posteriori. Il fatto è comunque che se Mario non si fosse accorto probabilmente oggi non sarei qui a scrivere, e questa consapevolezza gli ha sempre donato un potere assoluto su di me e sull’istinto incancellabile che mi diceva che avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Compreso, eventualmente, schermarlo da proiettili nel corso di una sparatoria oppure fungere da assaggiatore nel sospetto di un avvelenamento di palazzo o ancora buttarmi senza esitare per impedirgli la caduta da un viadotto dopo un incidente in moto. Da colleghi e amici eravamo litigiosi, reciprocamente pronti a darci piccole gomitate nei fianchi ma una certezza esisteva per entrambi: lui era lui, se avessi potuto l’avrei custodito in una teca di materiale infrangibile, ignifugo, impossibile da scalfire, e avevo la percezione di quanto ogni gesto fosse inadeguato per ringraziarlo abbastanza. “Ma guarda che lo so, ho capito”, e rideva: rideva così spesso quando avevo paura, quella risata era la mano che puntuale tendeva per tirarmi fuori dal panico.
Avrei fatto qualsiasi cosa per lui, ma il lancio per parargli la caduta dopo un incidente in moto non mi è riuscito. Avevamo discusso così spesso della sua passione per la moto e gli avevo rotto i santissimi in modo tanto pervicace che, sempre ridendo, ne aveva accennato a mio marito: “Giovanna non può sopportare la mia moto”. Eccetera, risparmio gli aneddoti di anni: sono miei, ho premesso che voglio trovare un messaggio da condividere e non sfogare un dolore usando il mio blog. Insomma, non potevo tenerlo nella teca infrangibile: mi aveva chiarito le idee quando gli avevo detto che conoscevo tanta gente che amava la moto ma per lui temevo qualcosa, sentivo che (chi mi conosce bene spera sempre che io “non senta che”).
Scrittura lenta, dicevo. Andiamo, lenti, a una constatazione. Credo di essere un medico capace di stabilire relazioni professionali positive e durature con i pazienti: non in tutti i casi, certo, ma amo moltissimo prendermi cura delle persone e sono certa che si veda. Ho sempre avuto la chiara visione di quanto alcuni pazienti si sentissero legati a me, quasi dipendenti e – qualche volta – appesi alle mie parole in modo difficile da descrivere. Ho pazienti che entrano in crisi se scorgono sul mio volto un’ombra che le altre volte non avevano notato, pazienti che seguono la mia attività di scrittore e inviano messaggi email e chiedono che spieghi perché ho scritto o dichiarato questo o quello in contesti diversi da IEO. Che il medico possa diventare importante per i pazienti mi è noto, non credo di avere mai abusato di questa posizione di bisogno e potere. Ma da una decina di giorni ho una botola sotto i piedi: Mario ha avuto l’incidente e io non ero lì per afferrarlo e pararne la caduta. Sono certa che lui sia qui adesso a osservarmi mentre scrivo, la vita non finisce certo con la morte fisica, però il distacco da una forma corporea, dalla voce, da abitudini e gesti rimane un lutto.
Mi sono accorta di avere una botola sotto i piedi, dunque. Il dolore per la morte di Mario riguarda Giovanna collega e amica, e allora ha le caratteristiche di un cuore che si è spezzato e ha bisogno di tempo per ricostruirsi, ma riguarda anche Giovanna-paziente di Mario che – salvata da lui, lo ripeto – a lui era aggrappata per i controlli, i momenti di sconforto e panico, i dubbi, le certezze. Quando qualcuno ti salva da una malattia ti si ficca in testa l’idea che la salute dipenda da lui (o da lei). Se Giovanna-paziente si accende, la botola minaccia di aprirsi e io di caderci dentro. La vedo, cammino e noto sotto i miei piedi la linea sottile dell’apertura, ne indovino lo spalancarsi su un abisso nero. Basta un accenno a Giovanna-paziente perché le altre Giovanna vadano in frantumi. Allora ecco la questione: non ho mai avuto l’esperienza di un rapporto medico-paziente in cui io fossi paziente disintegrata dalla perdita fisica del medico. Adesso ce l’ho.
Ormai decine di volte ho immaginato i miei pazienti che camminano nel mondo con la stessa botola sotto i piedi: forse non sanno di averla oppure, più intelligenti e illuminati di me, l’hanno intuita da tempo. Ma è lì, la botola, e per qualche ragione la sua apertura dipende anche da me: dalla mia eventuale morte fisica, da un altro genere di abbandono. Non ho mai amato in modo particolare il senso di onnipotenza del medico, ho sempre preferito un’empatica autorevolezza che ascolta, condivide, comprende e sa guidare con fermezza quando serve. Adesso che ho la botola sotto i miei piedi se per caso mi metto a pensare “E adesso cosa faccio senza Mario?” mi viene da vomitare per l’angoscia e il dolore, e comprendo in pieno la MIA responsabilità nei confronti dei pazienti. La so, la assaporo, la bevo, la tocco più di prima. Non sono certa che mi piaccia, anzi credo che il sospetto di essere in grado di spalancare una botola sotto i piedi di qualcuno mi inquieti.
Ma è così. La botola c’è. Medici e pazienti sono legati tra loro, soprattutto se la relazione funziona. Mario mi ha lasciato un ultimo dono: andandosene via mi ha costretto a guardare il mio essere medico in un altro modo, con il senso allibito e profondo del rispetto che devo a chi è convinto che la sua vita dipenda (anche) da me.

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Showing 6 comments
  • Francesca Balena

    E’ con molta emozione che leggo le sue parole. Mi dispiace per questo suo lutto. E’ successo anche a me. Più di una volta mi è capitato di acquisire quella che lei chiama quasi dipendenza, una ” quasi” adorazione o affezione per la persona e il medico che si prende cura di noi o per il chirurgo che rimuove “il nostro male “ in un piccolo lasso di tempo che sembra miracoloso. Tuttavia rispetto alla morte, per me è stato più difficile e doloroso accettare l’abbandono. Qualche mese fa è morto il ginecologo che mi ha seguito per diverso tempo, il medico che ha fatto anche nascere mia figlia; è spirato dopo una brutta malattia che noi conosciamo bene. Alla morte si dà una spiegazione o ci si rassegna forse, non lo so, ma l’abbandono è duro da accettare, almeno quello che si vive come tale.
    Due mesi fa all’ospedale della mia città, da un giorno all’altro, non ho ritrovato, al suo solito posto, la dottoressa che mi seguiva per le cure, ero lì con un regalino in mano:” E’ partita” mi ha detto l’infermiera” si è trasferita all’estero”, non sapevo nulla, sono rimasta male, un senso improvviso di disagio, di panico, mi ha afferrato: mi tremavano le gambe, ho provato un grande senso di abbandono, di voglia di piangere senza poter fare nulla.
    Me lo sono detta più di una volta che non mi devo affezionare ma è più forte di me. Con l’oncologo precedente poi è stata durissima dover accettare che con il suo avanzamento di carriera, con i suoi innumerevoli impegni , non aveva più tempo per seguirmi, dopo averlo fatto egregiamente per due anni. Aveva sempre meno tempo, meno spazio, per poter ricevere una telefonata, per poter rispondere alle e.mail, sempre di corsa, preso dalle sue ricerche, dai suoi viaggi all’estero, dalle sue difficoltà, da tutto quello che era per lui la priorità. Mi si è spezzato qualcosa dentro che non si riaggiusta più, mi sono sentita abbandonata, avevo smarrito la mia serenità, perdendo il mio punto di riferimento, ma non si poteva andare avanti così e ho dovuto fare una scelta.
    Gli sono ancora affezionata, lui non lo sa, io non lo dimenticherò mai, nel percorso fatto insieme, come si fa a dimenticare qualcuno con il quale si è condiviso qualcosa di così importante, di così vitale?
    Ora ho altri medici che mi seguono bene. Tuttavia e’ stata dura dover ricominciare da capo, è stato devastante. Se potessi farglielo capire quello che ho provato! Non ci sono riuscita. Mi rendo conto che qualcuno invece può comprendere e che non sono poi una persona così strana, così diversa. Grazie per questa condivisione.

    • giovanna

      Mi scusi Francesca se rispondo così tardi! Posso dirLe qui pubblicamente che mi è venuta in mente Lei per tante ragioni (belle) proprio dopo la morte di Mario Sideri. Ho ripensato tanto, come ho detto nel post, alla relaizone tra medici e pazienti. E a quanto essere medico ma anche paziente debba insegnarmi.

  • Francesca

    E’ con molta emozione che leggo le sue parole. Mi dispiace per questo suo lutto. E’ successo anche a me. Più di una volta mi è capitato di acquisire quella che lei chiama quasi dipendenza, una quasi adorazione o affezione per la persona e il medico che si prende cura di noi per il chirurgo che rimuove “il tuo male “ in un piccolo lasso di tempo che sembra miracoloso. Tuttavia rispetto alla morte, per me è stato più difficile e doloroso accettare l’abbandono. Qualche mese fa è morto il ginecologo che mi ha seguito per diverso tempo, il medico che ha fatto anche nascere mia figlia; è spirato dopo una brutta malattia che noi conosciamo bene. Alla morte si dà una spiegazione o ci si rassegna forse, non lo so, ma l’abbandono è duro da accettare, almeno quello che si vive come tale.
    Due mesi fa all’ospedale della mia città, da un giorno all’altro, non ho ritrovato, al suo solito posto, la dottoressa che mi seguiva per le cure, ero lì con un regalino in mano:” E’ partita” mi ha detto l’infermiera” si è trasferita all’estero”, non sapevo nulla, sono rimasta male, un senso improvviso di disagio, di panico, mi ha afferrato: mi tremavano le gambe, ho provato un grande senso di abbandono, di voglia di piangere senza poter fare nulla.
    Me lo sono detta più di una volta che non mi devo affezionare ma è più forte di me. Con l’oncologo precedente poi è stata durissima dover accettare che con il suo avanzamento di carriera, con i suoi innumerevoli impegni, non aveva più tempo per seguirmi, dopo averlo fatto egregiamente per due anni. Aveva sempre meno tempo, meno spazio, per poter ricevere una telefonata, per poter rispondere alle e.mail, sempre di corsa, preso dalle sue ricerche, dai suoi viaggi all’estero, dalle sue difficoltà, da tutto quello che era per lui la priorità, mi si è spezzato qualcosa dentro che non si riaggiusta più, avevo smarrito la mia serenità, perdendo il mio punto di riferimento, ma non si poteva andare avanti così, ho dovuto fare una scelta.
    Gli sono ancora affezionata, io non lo dimenticherò mai, nel percorso fatto insieme, come si fa a dimenticare qualcuno con il quale si è condiviso qualcosa di così importante, di così vitale?
    Ora ho altri medici che mi seguono bene. Tuttavia e’ stata dura dover ricominciare da capo, è stato devastante, se potessi farglielo capire quello che ho provato! Non ci sono riuscita. Mi rendo conto che qualcuno invece può comprendere e che non sono poi una persona così strana, così diversa. Grazie per questa condivisione.

  • ilaria

    Il Dott. Sideri ha lasciato un grande vuoto. Lei lo ha descritto perfettamente…… un sorriso rassicurante ma assolutamente competente. Ha accolto il mio terrore per il papilloma con grande professionalità mista a rispettosa ironia. E’ stato lui ad aumentare le mie difese immunitarie: i suoi occhi sono sempre stati un punto di riferimento.
    Ora da sua paziente non è facile farsene una ragione. Infatti ancora non ci sono riuscita….

    • MariaGiovanna Luini

      La vita di Mario ha avuto un senso pieno, perfetto, di amore e gioia e condivisione ed evoluzione continua. E Mario c’è, esiste, e vede. Non ha smesso di esistere.

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  • […] so quanti di voi riusciranno a cogliere il senso di ciò che sto per dire, ma l’incidente di Mario e la sua morte sono stati così assoluti da rendere il mio sguardo quasi ironico nei confronti di […]

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