a Robin, adieu

 In Eventi, la posta del cuore (?)

Ci sono morti che non capisco e morti che invece mi sembrano annunciate. Nelle prime ore di notizie dopo la morte di Robin Williams l’ipotesi del suicidio sembra probabile, e questa è una morte che capisco molto bene.

Di un attore conosciamo il volto pubblico, quello che decide di mostrare, e conosciamo o crediamo di conoscere i pettegolezzi, le piccole notizie familiari che ci fanno sentire parte della storia. La retorica poi vuole che quando l’attore muore si dica che “nascondeva un tormento” e nella vita privata fosse diverso rispetto a quando stava su un palcoscenico. Roba ovvia: tutti siamo diversi fuori e dentro le mura di casa, tutti mostriamo alla gente uno o più volti che non necessariamente corrispondono a ciò che sentiamo di essere. Non sta qui il punto.

Il punto è che negli anni di carriera di Williams ho sempre pensato che stesse combattendo una battaglia che conoscevo. Quando nasci con una faccia che ispira pace e simpatia, quando scopri che il tuo talento è fare stare bene gli altri attraverso “qualcosa” che esce dalla voce, dallo sguardo, dal tocco delle mani (anche metaforico), da ciò che dici e comunichi ti rendi conto in fretta che il tuo talento è una benedizione e una condanna insieme. E’ una benedizione perché ti piace fare quello che fai, adori la gente che ti guarda e sorride si commuove si ispira si emoziona grazie alle parole che escono dalla tua bocca e alla luce dei tuoi occhi, una condanna perché dentro di te scavano energie di segno differente. Ogni volta che qualcuno ti dice che hai ridato speranza, che sei allegro e solare e pieno di energia positiva sei felice, fai il pieno di una gioia che dovrebbe bastarti ma, dopo poco, vedi il nero dell’abisso nascondersi a pochi centimetri dal tuo sorriso, ricordi le ore solitarie di ansia, i risvegli di notte con un’angoscia che non sai spiegare, la paura della morte tua e di chi ami, i dubbi-dubbi-dubbi sul senso della vita e la fine di tutto. Dubbi che non hai il diritto di avere perché sei diventato l’icona della gioia, della creatività, della rivincita della risata etica sull’oscurità. Ti prendi cura degli altri e li fai sognare, ecco perché non hai il diritto di cadere e frantumarti di tanto in tanto.

Se poi ti sfracelli in una dipendenza – che sia l’alcol o qualsiasi altra porcheria come il cibo, la droga, il fumo o quello che volete – tutto si fa complicato, e non perché la dipendenza stessa sia complicata (certo, lo è) ma perché chiunque si metta in testa di aiutarti lo fa sottolineando che “hai tutto, sei bello e intelligente e simpatico e hai successo” e, di fatto, ricordandoti che stai fallendo. Fallisci perché non comprendi di essere fortunato e baciato da un destino stupendo, dovresti essere sempre ciò che gli altri vogliono che tu sia, devi essere “Capitano, mio capitano” oppure il dottore che fa ridere i malati o l’eroe che tiene su di morale i soldati in Vietnam e intanto fa critica sociale. Tu non puoi essere come gli altri quando vomitano, quando piangono, quando hanno paura, quando si incazzano perché la loro privacy è violata. Tu sei tu, devi essere travolgente di speranza e bontà e simpatia e bello e brillante e acuto come quando parli davanti alle telecamere o su un palcoscenico o alla radio o in qualunque altro posto che ami, ami con tutto te tesso ma arrivi a odiare se ti toglie il diritto di sentirti uno dei tanti.

“Vediamo chi vince”, su Robin Williams mi sono sempre detta così, e me lo dicevo per quella parte di identificazione che c’era in me. La faccia paciosa e la riuscita con il pubblico, la solarità (cosa sia mi è ignoto, cosa significa essere solari?) e la speranza che dava agli altri. La stessa speranza che nessuno si sarebbe sognato di dare a lui perché non era nel ruolo. La vita è fatta di ruoli e c’è gente che nasce con il ruolo di prendersi cura degli altri senza che gli altri si facciano venire in mente di ricambiare. La gente crede di conoscerti e in parte è vero: conosce di te ciò che le piace, ciò che suscita emozioni e sogno. Ma l’altra parte, quella che vorrebbe la pace e qualche momento di ristoro, fa fatica a entrare nel quadro. Il quadro che il mondo vuole mantenere di te. “Vediamo chi vince”: osservavo il sorriso nelle fotografie che tutti avete visto – un sorriso la cui genesi conosco come se fosse mio – e provavo a indovinare, ce la farà il sole oppure vincerà l’oscurità? Perché quel tormento è lì che ti aspetta dietro la porta, entri in casa e ti salta addosso, e nessuno (neanche i più civili, quelli che dicono di capire cosa sia la depressione) riesce ad allungare la mano per tenerlo lontano.

La parte più strana è che se sei fatto come Robin l’ironia è parte del DNA, parte dell’energia che ti tiene in piedi abbattendoti nello stesso momento: rideresti di ogni istante, anche quando stai da cane. Rideresti e avresti la battuta lì, sulla lingua, pronta a uscire anche nelle peggiori situazioni. E il mondo riderebbe di quella battuta. Riderebbero tutti. Tranne tu.

 

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Showing 6 comments
  • Fabio
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    Ci sono pochi personaggi che hanno ispirato la mia vita come il prof. Keating dei Poeti Estinti. Non il Carpe Diem in sé, ma piuttosto il succhiare il midollo della vita. Ironico di per sé che la tragedia di quel film si debba rispecchiare a 20 anni di distanza nel dramma dell’uomo che fu l’icona di quel film.
    Eppure chi era che vedevamo?
    La maschera del prof. Keating. Il personaggio? Oppure l’uomo che la vestiva?
    E’ una domanda più profonda del semplice ruolo che si interpreta, perché nella vita tutti siamo attori e tutti siamo comparse. Più profonda del semplice George Clooney sa intubare un bambino di 10 anni e sa parlargli di baseball, perché in ER era così credibile nel farlo.
    È il senso di ciò che sono le storie e di cosa rappresentano. Quelle storie che erano contemporaneamente il prof. Keating e l’attore Williams: perché è vero che non erano la stessa persona, ma è anche vero che Keating non sarebbe stato lo stesso se l’avesse interpretato qualcun altro.
    Forse sono sfumature, che solo chi ha calcato un palcoscenico pensa di dover notare. Ma è proprio questo il senso del teatro: quando i riflettori di spengono, quando il sipario vien giù, tu sei da solo. Con quel te stesso dal quale ti allontani, o nel quale ti rifugi. Ma da solo. Dietro una quinta che ti separa da tutto il resto dell’umanità.

  • giovanna
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    🙂

  • Isabella Bolech
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    Molto vero ciò che scrivi – mi permetto il tu anche se non ci conosciamo, solo perché uso questo spazio e questo mezzo – anche se non ci è dato sapere veramente se si applichi del tutto al personaggio in questione, o se abbiamo bisogno di pensarlo per via di quello straordinario talento che ci ha mostrato.
    Molto vero, dicevo, perché la versione estroversa, nel gioco delle polarità che ci appartiene come esseri umani, connota il lato più oscuro, più tormentato, in altre parole l’abisso. Ma è anche vero che solo che frequenta e abita gli abissi è capace di innalzarsi e condurre con sé gli altri sulle vette.
    La conclusione però non è necessariamente quella di abbandonarsi alla disperazione, ma di addomesticarla, di condividerla con con chi ha orecchie attente e generose, con persone che ci assomigliano e che hanno appreso a riconoscerne le sfumature.
    Ho imparato per me e per gli altri che la strada è non subire più il fascino del tormento e della sofferenza che l’abisso offre come una vertigine che ci stordisce e che si può camminare sui sentieri di cresta senza cadere.
    E soprattutto senza perdere la nostra parte comunicativa, allegra e creativa.

  • Marina
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    quando dai parole ai mali dentro sei impagabile. tvb

  • giovanna
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    Isabella, credo che questa possa essere una soluzione. E’ vero. Secondo me ognuno ha o può trovare una propria soluzione. Il suicidio è visto da alcuni come una sconfitta, da altri come la rivendicazione della libertà di porre fine alla propria esistenza quindi non necessariamente una sconfitta. Nell’equilibrio dinamico, precario, instabile ma possibile tra tormento e gioiosa condivisione comunicativa i momenti si alternano, le energie si danno e ricevono, ritornano e sembrano esaurirsi. Dare è ricevere, in effetti, perché chi nasce con il “talento” comunicativo ha bisogno di mettere in atto, di agire secondo questo talento anche se l’effetto collaterale qualche volta è una specie di esaurimento funzionale, di valvola che emette energia senza trattenerne un po’ per sé. Il tormento per chi scrive, per chi ha una creatività evidente (che è bisogno prima che professione, prima che “hobby” – parola agghiacciante e offensiva) non è granché affascinante, se escludiamo gli artisti che si crogiolano nel nero, nella posa da maledetto/a. Mi viene in mente Christine Angot che in una delle sue opere riuscite (ne ho amate alcune, apprezzate meno altre) fa dire a qualcuno che senza il tormento non vi sarebbe creazione, non nascerebbero i libri. Penso sia vero, quell’impasto di fuoco e ispirazione e misterioso miracolo creativo ha dentro anche il tormento.

  • giovanna
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    Grazie, Marina!

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