le parole senza senso
E’ una mattina di parole senza senso. Il risveglio quando ancora è buio con la sveglia che non smette di squittire (Alberto ha la sala operatoria nelle prime ore del mattino, mi alzo con lui e non riguadagno il letto quando lo saluto e lo vedo uscire) può essere denso di energia oppure vuoto, un rintocco in un nulla piuttosto misterioso. Che poi volendo rifletterci bene il nulla è il senso della creazione: dal nulla – un nulla apparente, l’energia febbrile che tutto può – nasce la scrittura (tra le altre cose).
Sarà che in questi giorni sono ovunque con le presentazioni e gli incontri con i lettori, sarà che ieri sera Marco Garavaglia accompagnandomi a Corbetta mi ha raccontato sconvolto la morte di una persona che conoscevo, questa mattina ho gli occhi cisposi nonostante la doccia e i pensieri incompatibili con il sole. Dovrò risvegliarmi, ho ambulatorio alle 13.30: ecco l’effetto collaterale piacevole dell’essere medico e non solo scrittore. Ma risvegliarsi è processo lungo e chiede scrittura.
Quando sono così – così come adesso – capisco che è arrivato il momento di abbandonare alcune quotidiane abitudini e ritornare dentro una scrittura. Alberto, più saggio e lungimirante di me, nota settimana dopo settimana la trasformazione che decodifica in un lampo: “Devi ritornare a scrivere”. E detto a una donna che tutti giorni usa molte ore per scrivere appare strano, ma strano non è. C’è scrittura e scrittura. Esistono – sono certa che molti di voi lo sappiano – scritture da niente (un soffio, le ami comunque ma sai che escono dalle dita perché è naturale che accada) e scritture da tutto. Scritture che la gente ti sollecita perché in un giorno qualunque hai detto sì a una collaborazione, a un blog, a una testata più o meno culturale. Scritture che sono appuntamenti fissi, e come sempre agli appuntamenti fissi reagisco con entusiasmo se la luna è favorevole o con odio se il senso di indipendenza preme dietro i bulbi oculari. Poi ci sono le scritture vitali e necessarie, che spazzano via improbabili (per me) routine e tirano fuori il tormento di cui così spesso si parla nelle presentazioni di “Oltre il dolore“. Difficile presentare un libro sul dolore, a proposito: nessuno ha voglia di ragionare davvero sul dolore, chi accetta di farlo deve abbattere la certezza di assistere a un incontro deprimente ed evocativo delle peggiori tragedie. Per fortuna empatia, cuore ed emozioni e una buona dose di ironia ribaltano le aspettative, ma l’impresa resta impegnativa. Divagazione terminata, ritorniamo a questa mattina.
Esco dalla doccia, entro nei vestiti e non ho bisogno di osservare lo specchio. So come sono i miei occhi. Gli occhi del novembre, potremmo dire. Gli occhi di un cumulo di impegni interessanti e quasi ossessivi in un clima a tratti uggioso. Gli occhi – soprattutto – di un romanzo che preme per nascere ed è stato finora represso, nascosto sotto la necessità di scrivere altro. C’è una buona dose di rimozione nei preludi della mia scrittura, quasi esitassi a darmi questo piacere intimo e totale. E’ anche vero che il prossimo romanzo da scrivere appare complicato, un impasto di fantasie che – sono certa – sfioreranno da vicino alcune realtà pure traendone solo ispirazione e non volendo ritrarre altro che il cuore umano e le sue folli sfaccettature. Mi aiuta la programmazione editoriale già completa per il 2015: mi fa sentire avvolta nella coperta calda di un anno di scrittura.
In questi giorni ho letto tanto, qua e là. Tra gli altri: “Ti parlerò di te. Incontro che l’uomo che vede dentro di noi” (di Giovanni Benincasa, Mondadori). Vi risparmio la storia di Mario Azzoni: non è l’argomento di questo post e non è una novità per voi scoprire che oltre alla letteratura contemporanea e classica spazio ovunque con una curiosità vorace. Oltretutto credo che la lettura sia un affare personale, ognuno legga i libri che vuole (e alla commistione tra scienza, tecnologia ed energie e alla mia apertura al mistero tocca abituarsi, amici). Ciò che ho voglia di raccontare è il senso di pace, un’ovatta morbida e diafana, profumata, quando ritrovo parti di me nei libri che leggo. E in questo libro ho trovato proprio tante cose. Il libro è arrivato a me da una donna (colei che dovrei chiamare una mia “paziente” se solo amassi questo termine) evidentemente spinta da rivoli di energia e intuizioni, e mi ha colpito dalla prima pagina: Lecco, la mia città di nascita, una famiglia con quattro figli e altro che è inutile dire qui. Leggevo, cioè aprivo il libro per la prima volta, sul treno che da Milano Centrale mi portava proprio a Lecco per la presentazione di “Oltre il dolore” alla Galleria Melesi (stupenda), alle prime righe sorridevo per il diadema di coincidenze (ho già detto che non credo alle coincidenze?). Ma insomma, neanche questo è l’argomento del post: la necessità di prendere tempo in solitudine, ecco l’argomento. Anche nel libro di cui vi sto biascicando qualcosa ritorna l’utilità di restare un po’ sola ogni giorno, per scelta, per ricaricarsi. Un bisogno che ho riconosciuto da tempo – prima capivo poco dei miei personali bisogni – e a volte fatico a rispettare. Essere anche medico certo non predispone alle lunghe passeggiate in solitudine, perfino quando – come me – hai suddiviso in modo scientifico la settimana: come fai a spegnere il telefono e non sbirciare il messaggi email quando hai tanti pazienti che si affidano a te? Eppure quei momenti densi di me stessa, silenziosi e nudi di telefonate, messaggi, richieste, proposte rendono la mia energia più piena, la recuperano là dove sentivo di averla sciolta.
Rido, ora. Da sola, fissando lo schermo. Mi sono venute in mente alcune persone che, pervicaci, si ostinano a comporre il numero del mio cellulare anche sapendo che non amo dilungarmi al telefono. Le visualizzazioni della solitudine, appunto. E queste sono parole senza senso, occhi cisposi in una mattina di scrittura con un romanzo che preme.
Trovate la vostra energia, i vostri colori. Cercate la pace che vi ricostruisce. Non datemi troppa retta, provate solo a sentire.
Amen.