un racconto – un giorno mi regalò una rosa
Camminava nel corridoio, potevo notare il rumore dei passi quando le voci dell’ambulatorio si facevano più lente. Negli spazi del silenzio intuivo la presenza, fuori: aveva la tenue pazienza di chi riempie l’attesa di fantasia e respiro, aveva il sorriso – quando finalmente la porta si apriva e poteva infilare la testa dentro e propormi un pranzo insieme, o un caffè – di chi sa amare bene.
Ho sempre pensato che amasse pulito. La mia storia, con quell’infanzia incastrata in un insieme sconnesso di bellezza e tormento, ha bisogno di sguardi limpidi e mani decise, di baci forti e braccia tenere e feroci. E lui era così. Strano parlare dell’amore quando è lontano, ancora più strano raccontare frammenti minimi di istanti a un pubblico che non ne conosce il volto. Ma questa è la vita: si riempiono i dubbi con la creazione di identità fasulle che in fondo assomigliano sempre all’idea originale, e non importa se tirando a indovinare qualcuno ce la fa a ricostruire il vero. Il vero non esiste, o piuttosto esiste sempre e per questo sfugge alle menti più acute.
Camminava, insomma. Se terminavo presto le visite allargava le braccia, stupito.
– Ma è un miracolo!
Rideva, faceva un segno con le dita e indicava la porta. C’era la strada, fuori, e la campagna appena più in là. Abbiamo colto per finta ogni singolo fiore, abbiamo annusato i petali e leccato i gambi come bambini riversi sui prati. Abbiamo parlato dell’amore, e della luce e della morte. Quella morte offensiva che non avrebbe dovuto arrivare.
Amava bene. Amavo che amasse bene. E un giorno mi regalò una rosa.