lo scarabeo verde (racconto inedito)
– Quel vaso di margherite, per favore.
L’uomo annuì, tolse il cartellino di plastica gialla e incartò veloce.
– Dieci, grazie.
Leila porse la banconota, sorrise e circondò il vaso con un braccio.
– E’ un po’ pesante…
Fece no con la testa, non pesava così tanto. Con la spalla si mosse in due piccoli scatti, controllò che il portafoglio fosse ricaduto giù, in fondo alla borsa (avrebbe dovuto chiuderla ma ci avrebbe pensato dopo) e si avviò attraverso i cancelli enormi e deserti.
– Si sta così in pace qui.
Bruno non rispose, la constatazione sulla pace che aveva tirato fuori solo con il pensiero ebbe l’esito di una carezza, un soffio di vento le avvolse il collo e pizzicò la base della nuca.
Aveva imparato subito la strada, era facile: a destra, qualche scalino e il riferimento di un piccolo tempio con una rosa rampicante dietro. Qualche altro passo e c’era. Le piaceva il rumore delle scarpe basse sulla ghiaia, le piaceva incontrare la fontanella sempre aperta con l’acqua che veniva giù limpida. Un torrente piccolo e vigoroso, sottofondo necessario tra i monumenti e gli alberi pieni, e i voli improvvisi di stormi di uccelli che si levavano seguendo impulsi misteriosi e rapidi.
– Ciao.
Chi stava salutando? Bruno lo chiese fulmineo, nella sua mente la domanda si materializzò insieme a un’altra.
– Perché vieni qui?
– Perché mi fa stare bene, e anche il tuo corpo per me è importante.
– Ma ti ho già detto tante volte che non è niente, niente! Io non sono più quello.
– Lo so. Ma lì – e indicò la tomba dove si era fermata – c’è scritto il tuo nome, e adoro portare fiori.
Questa volta per parlargli usò la voce, intorno aveva il deserto e poteva permettersi di bisbigliare: se qualche turista a caccia di monumenti da fotografare l’avesse notata avrebbe solo concluso che fosse “una dolente in visita ancora sconvolta”. Non era sconvolta, solo che non era lì per ammirare i monumenti e scattare fotografie. Era una dolente in visita, sì, e quando sedeva sulla tomba per pregare (nel suo modo bizzarro di unire le religioni che conosceva e la filosofia personale) capitava che davvero i turisti la cogliessero piegata avanti, silenziosa e assorta, e scattassero immagini che chissà dove sarebbero poi finite.
Sistemò il vaso con le margherite, andò a prendere un po’ d’acqua per innaffiarle. Poi sedette sul marmo.
Stava smettendo di rimpiangere il tempo. Accettava la scissione tra la consapevolezza di una vita che non si era spezzata davvero e i ricordi fisici, concreti, di carne e voce e dimensioni da toccare. Accettava di piangere anche se il pianto era contrario a ciò che sapeva di Bruno: era lì, aveva fatto ogni cosa perché lei e gli altri si accorgessero della sua presenza. Eppure i residui dei pensieri ancora bruciavano, più di tutto desiderava che lui avesse una restituzione per la bellezza che aveva creato, la gente che aveva riempito di gioia e amore, la luce che aveva sparso più e meglio di tanti altri.
Osservò gli alberi e le tombe: su una campeggiava un cognome, Pazzi. Pazzi, erano pazzi perché celebravano riti intorno a corpi che non erano altro che vestiti smessi. Avrebbero dovuto alzare gli occhi e non abbassarli sulle lapidi, restare in silenzio e mettersi in ascolto scacciando gli eccessi di un dolore che non faceva altro che coprire i segni meravigliosi dell’energia vitale di chi era ancora lì con loro. Accarezzò le margherite: erano belle, qualche insetto iniziava a ronzare intorno e le inseriva nell’habitat di quell’angolo di natura.
Bruno taceva, un uccello si levò da un ramo strillando. Lasciò che insieme al sorriso e alla certezza della sua mano appoggiata alla schiena nascessero le lacrime: erano piccole, simili a perle trasparenti che rotolavano giù come i ricordi. Era il momento umano, della carne che soffriva: niente era davvero perduto ma avrebbe dato ogni suo bene per rivedere il fratello una volta, una sola, nel corpo fisico con l’abbraccio imbarazzato e potente e la risata ampia che trascinava dietro mille cori di altre voci.
– Mi sono fatto vedere da te, in sogno e anche quando eri sveglia. Perché stai piangendo?
La domanda fu così chiara e violenta nella sua dolcezza da bloccare il pianto. Inspirò aria e profumo di fiori.
– Perché non ho mai urlato, ci sono aspetti che…
– E’ finito. E tu sei la persona che può alleviare il dolore degli altri, invece stai qui a piangere. Spiega a chi non ci crede, racconta cosa vedi e quali segni hai, aiutali! Stai piangendo su corpi che non ci sono più, sono gusci di noce senza vitalità.
– Certo, perché è facile. La cosa più ovvia è dire che io sia impazzita.
– Non mi risulta che questo ti abbia mai preoccupato. C’è più gente disposta a crederti di quanta immagini.
Lo sapeva, ed era comunque irrilevante. Ciò che fino a quel momento aveva visto, ascoltato, intuito era sufficiente per cancellare ogni remora.
– Allora dammi un segno.
Fu certa che Bruno sospirasse e ridesse insieme. Quale enorme, assoluto egoismo chiedergli segni, dimostrazioni e prove. Ma aveva pazienza e ogni volta la accontentava: si trattava solo di aspettare e non lasciarsi abbattere dalla cecità del dolore e della razionalità eccessiva. I segni arrivavano puntuali ed eclatanti.
Si alzò. Qualcosa era diverso nell’aria, nell’abbraccio che sentiva sulle spalle. Salutò con un bacio il nome scritto sul marmo e iniziò a camminare: questa volta non sarebbe andata via, avrebbe girovagato tra gli alberi e i monumenti immaginando vite e amori, circondata da Angeli di marmo ritratti nel loro volo o nella caduta di una morte umana che non li riguardava.
Si perse nei vialetti, salì al Famedio e provocò il sorriso divertito di una donna quando salutò Manzoni con “Ciao, Ale”; accarezzò la tomba di Quasimodo e ritornò fuori, ancora tra gli alberi e ancora serena per il sole che occhieggiava ogni tanto tra nuvole bisbetiche e il canto degli uccelli. Poi, senza averlo previsto, si ritrovò a una decina di metri dalla tomba di Bruno. Non si era resa conto di essere arrivata lì. Avanzò fino alle margherite, sedette. E lo notò.
Sui petali bianchi un grosso scarabeo, il più bello che avesse mai visto. Non dava solo l’impressione di essere verde: era davvero verde cangiante, uno smeraldo vivace che, incurante e tranquillo, mangiava e passeggiava lasciandosi accarezzare piano.
Lo Scarabeo, l’anima dei morti. Il segno magico della fortuna, la vita oltre la morte.
Lo scarabeo verde era lì con lei, rimase sulle margherite finché fu lei ad alzarsi e, con l’abbraccio di Bruno e una risata piccola nelle orecchie, uscì per cercare un taxi.