storia di trecento metri

 In Blog, I racconti del taccuino, la posta del cuore (?), Racconti

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Ogni tanto mi perdo. Approfitto di un viaggio solitario senza i limiti imposti dal tempo e dalla necessità e imbocco strade che non conosco: preferisco le zone che sembrano dimenticate, piene di foglie e alberi e silenzio a rimbalzare sui rami. Se incontro ruscelli, torrenti e fiumi che scavano passaggi nelle rocce mi fermo e lascio cadere pensieri e olfatto nella corsa a precipizio dell’acqua e nei canti misteriosi di uccelli che non riesco a scorgere.

Liberi si pensa meglio, liberi si evita meglio ogni insidia del pensiero.

Ieri viaggiavo per raggiungere il mio eremo a San Michele e ho deciso di abbandonare l’autostrada: più volte mi aveva incuriosito una certa uscita, mi affascinava il cartello che indica vie e destinazioni che evocano libertà. Così, complice la serenità di una solitudine nell’attesa di notizie editoriali, ho deviato dal percorso e imboccato un percorso ignoto. Per una donna che si annoia facilmente l’ignoto è paura e bisogno, è fascino e orrore, è abitudine e ricerca: almeno così dicono i dotti – e io non lo sono, però mi annoio facilmente quando non ricordo che il tempo è opportunità, ecco perché (forse) gioco a perdermi e a ritornare a casa.

Ho trovato una bella strada larga e poco frequentata: alcune case diroccate proprio ai margini e un bosco alto e pieno a fiancheggiare ogni metro mi hanno fatto pensare di avere avuto una buona idea. La definizione di “buona idea” nella mia testa è piuttosto diversa dalla media nazionale, ma questa regola si applica ad altre situazioni: ieri lo stato d’animo avrebbe potuto considerarsi quasi simile alla serenità di una quarantacinquenne in procinto di rivedere il proprio romanzo per la prossima pubblicazione.

La prima, piccola visione è stata una moto: guidavo tranquilla controllando il retrovisore quando l’ho notata affiancarsi dietro, sul lato sinistro della macchina. La visione è stata così improvvisa da spaventarmi: era una moto potente, di quelle che ogni tanto sogno di guidare, il motociclista aveva una tuta nera e il casco variopinto ed era arrivato vicinissimo a me. Ho atteso che mi superasse, non è accaduto: quando ho ricontrollato in tutti i retrovisori della moto non esisteva più traccia. Ho rallentato: che fosse così vicina da essere caduta per un impatto di cui non mi ero resa conto?

Mi sono fermata: il rettilineo lungo, libero dietro di me non aveva altro che il riflesso del sole e qualche foglia sporadica non ancora sbriciolata da pneumatici e dal vento. Nessuno dietro, nessuno davanti. Soprattutto: né macchine, né moto intorno. Ho sorriso: solo alle persone famose è concessa una scorta in moto, forse stavo avendo il mio momento di celebrità in un mondo parallelo. Sono risalita in macchina e via, con un saluto al motociclista misterioso che mi stava accompagnando e aveva deciso di farsi vedere per alcuni meravigliosi secondi.

Poi ho notato un’indicazione piccola, a destra: un cartello marrone con il nome di una valle. Perché no? In fondo queste avventure sono piccoli inganni della fantasia: una macchina con il navigatore satellitare ti tira fuori dai guai, la sensazione dell’avventura tipo Indiana Jones è rimandata. Non amo barare, ma se si tratta di giocare con lo spazio e il tempo tiro fuori qualche trucco e mi sento più sicura. Ho aggredito una via tortuosa e stretta i cui dislivelli indicavano una manutenzione impossibile e una serie enorme di frane tenuta su a stento dalle radici degli alberi: su e su, con i finestrini spalancati e il sole a battere sul cofano e a tratti a scomparire dietro spesse nuvole nere accompagnate da violente folate che restituivano il respiro. Su, giù e ancora su: alberi, vento, fiori a manciate e a radure, rocce e sassi caduti sull’asfalto, slarghi a concedere il passaggio scarno a due improbabili veicoli che si fossero incontrati. Nel folto di una macchia più scura uno scoiattolo ha attraversato la carreggiata poi, più in là, ho dovuto fermarmi: in mezzo alla strada, a riempirla tutta, erano seduti alcuni gatti. Accoccolati placidi davanti alla macchina, mi osservavano attenti e sono certa di avere notato un piccolo e ironico sorriso negli occhi di alcuni di loro: non avevano l’intenzione di lasciarmi passare.

A Milano qualche buona amica mi avrebbe subito suggerito di serrare le portiere e chiudere i finestrini: “E’ sicuramente una trappola, il tentativo di un ladro o di una banda di violentatori seriali. Usano i gatti per bloccarti e quando scendi…”. Ma non ero a Milano, così ho lasciato tutto aperto e sono scesa: un gatto grigio, pigro, ha mosso appena la testa e due bianchi e neri hanno accennato un nervoso scodinzolio subito abortito a favore del sonno. Un gatto rosso ha salutato con un piccolo “miao”. Nessuno si è mosso, che la mia macchina dovesse passare non rientrava nelle loro priorità.

“Ragazzi, mi fate passare? Non posso andare indietro”.

Ci ho provato, a casa parlo continuamente con Pina, Umberto e Camillo (i miei gatti) e chiedo loro cosa abbiano fatto in mia assenza, cosa abbiano voglia di fare e se abbiano fame o sete: che mi rispondano o meno, mi piace immaginare che capiscano. Certo, Camillo è del tutto sordo ma è anche il gatto più telepatico che conosca: con lui la comunicazione mentale è efficacissima. Insomma ero lì in piedi a fissarli, e loro fissavano me. Poi un colpo di vento diverso, e il loro sguardo concentrato sul vuoto alla mia destra: fermi, acutissimi, uno di loro ha iniziato a fare le fusa. Chi guardavano, cosa fissavano? Non ho visto altro che l’aria e il verde degli alberi, eppure la concentrazione dei gatti e il refolo storto, fresco e incoerente con la direzione del vento era impossibile da negare. E a un tratto alcuni dei gatti si sono alzati: lenti e sicuri, hanno raggiunto gli altri e creato lo spazio sufficiente per lasciarmi passare.

Che fosse il motociclista scomparso dal retrovisore? Che si trattasse invece di uno spirito dei boschi, della regina dei gatti sopraggiunta a convincerli a lasciarmi un piccolo margine per proseguire? Sono risalita in macchina e, con qualche impegno per le gomme su un tappeto sconnesso di rocce (in quel momento il volto di mio marito è comparso a minacciarmi nel cielo plumbeo e variegato del tardo pomeriggio), sono riuscita a oltrepassare la barriera felina. Ancora salite, ancora curve strette senza la protezione di un’illusione di guard rail, ancora pensieri forti e liberi lasciati correre a intrecciarsi con i rami che calavano molli dentro piccoli rivi d’acqua. E il navigatore, incredulo e rassegnato, a dire sempre e solo: “svoltare a destra” nei punti privi di deviazioni, nelle radure vuote dove evidentemente non esistevano coordinate geografiche. Svoltare a destra, solo questo. Chissà perché.

Due ore e mezza di niente, due ore e mezza di tutto. Mi spingo di solito fino alla sensazione di dovere ritornare, cerco lo smarrimento oltre il navigatore e la certezza della tecnologia, annuso la libertà quando diventa timore per la perdita dei riferimenti, e così è stato anche ieri. Finché ho deciso di recuperare un percorso noto e, seguendo ormai solo un istinto (cioè il caso, direbbero alcuni), ho raggiunto la strada originaria. La strada dove avevo notato il cartello marrone con l’indicazione della valle.

Ormai erano trascorse circa tre ore. Con lo scoiattolo, i gatti, il sole torrido e la minaccia di tormenta e le nuvole gravide di pioggia tumultuosa. Tre ore e decine di chilometri di azzardo, metà serbatoio andato, mazzi di fiori che avrei potuto cogliere (non lo faccio mai, i fiori devono vivere) e discorsi segreti a voce alta. Quando ho raggiunto la strada principale mi sono resa conto che nel suo percorso lineare ero andata aventi di trecento metri. Niente più di trecento metri. Se fossi rimasta sulla strada larga e sicura avrei impiegato meno di un minuto per andare da là a lì.

A volte amo perdermi, anche se poi il risultato netto sono trecento metri. Mi accompagnano regine dei gatti, motociclisti invisibili, scoiattoli e pensieri magici. Amo perdermi e mi ritrovo, un po’ più in là.

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