la strana sorte dei nonni, e la mia morte (chissà)

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Sarà che oggi mi sono arresa e sono andata a comprare i primi occhiali da presbite accettando l’evoluzione del mio corpo con l’età, sarà che ogni nuovo anno porta a pensare al passato ma questa sera, con la voglia di scrivere e il torpore molle dell’attesa dell’ispirazione, mi sono venuti in mente i miei nonni. Si chiamavano Giovanni e Giuseppe (Pino) e senza saperlo, senza nemmeno volerlo, hanno determinato la mia vita.
Non ho mai conosciuto nonno Giovanni e ho ereditato il suo nome dopo avere rischiato, fino all’ultimo istante della nascita all’Ospedale di Lecco, di chiamarmi Benedetta o Selvaggia. Non è chiaro chi sia intervenuto a salvarmi, forse Cesare (il mio padrino di battesimo, non a caso di professione psichiatra) o uno dei genitori in barlume di lucidità nonostante l’emozione per la primogenitura: Giovanna è il nome che ha evitato al mio volto pacioso e tondo di stonare su un Selvaggia Gatti e di enfatizzare un pericolosissimo Benedetta Gatti.

Giovanni Gatti era mio nonno, morto di infarto in meno di un minuto mentre beveva un caffè a fine dicembre. Prima che io nascessi. Il suo morire ha determinato il mio chiamarmi Giovanna, chiunque abbia pescato l’idea all’Ospedale di Lecco: il nome assume una vibrazione, un’energia unica che, ci piaccia o meno, caratterizza ciò che siamo. Sono una Giovanna perché nonno Giovanni è morto vicinissimo alla mia nascita. Di questo nonno ho sempre visto una sola fotografia, ho ricevuto decine di racconti ma ha avuto la sorte dei parenti che, ahiloro (e ahinoi), se ne vanno presto e devono affidare se stessi alle ricostruzioni postume di chi li ha amati.

Chissà se chi muore e diventa icona si riconosce davvero in ciò che sente narrare dall’altra dimensione. Eppure. Quel Giovanna che arriva da Giovanni ha infilato nel mio sangue più di quanto il DNA abbia saputo fare: la passionalità a volte incontrollabile, gli impeti di rabbia e difesa della giustizia a petto in fuori, la voglia di trovare sempre oggetti belli e non quelli che costano poco o sono di moda arrivano da lì. Nonno Giovanni che nasconde in casa i partigiani e prende a pugni i fascisti che vorrebbero entrare a perquisire (rischiando di farsi ammazzare) perché il sangue bollente non sa suggerirgli altro mi spinge a sorridere e a notare nella vecchissima e unica foto lo scintillio che riconosco allo specchio tutte le mattine.

Coraggio? Mah, forse un tocco di follia perché non so mai valutare quanto nel mio partire lancia in resta sia calcolato coraggio e quanto invece sia frutto dell’incapacità di gestire i miei afflati di uguaglianza, fraternità eccetera. Nonno Giovanni simpatico e accogliente ma anche ribelle e pronto a infiammarsi. Nonno Giovanni cui sicuramente piaceva mangiare e che probabilmente è morto avendo un certo numero di persone innamorate di lui e un altro numero che lo odiavano, a nessuno essendo indifferente: anche questo, tutto questo arriva da lì.
Poi c’è nonno Pino (Giuseppe). Ho impiegato tanti anni per riuscire a parlare di lui, per soffrire per la sua morte sbloccando un lutto che avevo rimosso, murato, rifiutato quando avevo sedici anni. Nonno Pino era l’amore incondizionato fatto carne (poca, era molto magro) e ossa (tante, era alto). Ed era l’unica persona che in famiglia avesse realmente compreso chi io fossi. Insisteva perché non seguissi la razionalità e l’esempio di mio padre medico, ma l’istinto e il talento: “Devi scrivere, tu devi scrivere. Lasciatela libera, deve scrivere”. In effetti nessuno mi ha imposto alcunché, ho sempre scelto ciò che volevo fare, ma il suo “lasciatela libera” riguardava la tendenza di tutti a dare per scontato che diventassi medico. Perché mi piaceva occuparmi degli altri, perché assomigliavo (assomiglio) così tanto al papà, perché a scuola ero proprio bravissima. Perché adoravo Umberto Veronesi che vedevo in televisione e sui giornali. Nonno Pino insisteva che dovessi seguire la pancia: avevo il talento per scrivere, dovevo seguirlo perché sarei stata felice così. Ero scrittore nato, non medico nato.
Il paradosso che più mi colpisce è che è stato proprio nonno Pino a determinare in modo inesorabile la scelta per la facoltà di medicina. Lui che voleva che mi dedicassi ala scrittura ha legato il mio studio e il mio futuro alla medicina ammalandosi di cancro al pancreas e morendo in un mese: la sua malattia e la morte mi hanno inchiodato più di tutte le esortazioni blande e implicite degli altri familiari.

Strana la vita, vero? E strana anche la morte.
Non ho mai pensato a questo prima, non mi ero mai resa conto che chi mi voleva libera morendo mi ha incatenato, salvo poi aiutarmi successivamente (ne sono convinta) a deviare da un periodo granitico per una versione di me molto più fluida e adatta alla molteplicità di amori.
Morendo, nonno Giovanni mi ha reso Giovanna. Morendo, nonno Pino mi ha reso medico. Mi chiedo oggi se lo volessero, e mi chiedo se la mia morte un giorno determinerà la vita di qualcuno. Spero di no, lo dico con sincerità: è vero che la mia presenza energetica potrà comunicare con chi ancora vivrà nel corpo fisico (magari aiutando chi soffre per me a staccarsi dal quel dolore e continuare a vivere), ma non tutti saranno in grado di ascoltarmi e non vorrei proprio che chi amo fosse indotta/o a scelte che – pure meravigliose – non sono del tutto libere. Vorrei donare libertà, solo quella, e niente più.

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