c’è il vento e non lo sapevo
C’è vento e sono impreparata. Non so come, ho trascurato di accorgermi che sarebbe arrivato il vento del Nord: eppure l’inquietudine nasce sempre due o tre giorni prima, è una specie di microscopica fiamma che si accende e nelle ore cresce e divampa, un’ansia feroce come le folate lunghe che mi chiede di andare via. Via dai luoghi e dalle persone, via dal tempo che rimane. Questa volta non è accaduto. Questa volta ho dovuto rendermi conto del vento solo notando gli alberi piegati, le foglie nuove aggrappate isteriche e le zanzariere del mio studio arricciate e divelte.
Dentro, il mare è calmo. Un amico astrologo mi aveva preparato a un anno difficile, una veggente l’ha definito il più duro del decennio (quando si usano espressioni troppo buie le scaccio con un gesto della mano ma non so dimenticarle), ma la rivoluzione di gennaio, febbraio e marzo è andata oltre la mia capacità di preparare l’anima. Forse per questo aprile è muto, o quasi. Forse per questo il tuono del vento del Nord non si è fatto sentire: i recettori nervosi, stimolati oltre misura fino a qualche giorno fa, si rifiutano adesso di rispondere a qualsivoglia sussurro. Per un po’ se ne stanno placidi e distanti e mi osservano come fa il Maestro a yoga: sorride, mi pianta addosso le pupille dell’amore e chiede di ricordare me stessa. Il mio centro. Lo scheletro che dovrei mettere a nudo.
La prima volta disse: “Non puoi farci niente. Accetta e basta”. Uno dei più grandi misteri della vita resterà la pace che è calata in me in quella impossibilità, nella serafica condanna che il Maestro mi inflisse aiutandomi a rinascere. Finché mi ha chiesto di liberare il mio scheletro, di tirarlo fuori.
E l’ho proprio coperto bene, questo scheletro. Strati e strati di tessuti utili e inutili, strati di difese che oggi – siamo oneste – non servono più. Sono sola al centro di un pianeta che galleggia nell’Universo, circondata da voci e mani e amore e passioni che posso assaggiare e vivere, ma solo un po’. Sempre solo un po’. E penso che forse la mia libertà genetica chieda proprio questo: che io scelga situazioni che posso avere solo un po’, mai possedere sul serio. Devo essere nata con la carta del Matto in mano: viaggio nel mondo con il mio agile fardello, scambio energia ed eros e ragionamenti adatti e non metto radici. Anche quando le voglio, anche quando mi strabilio di amore e speranza in un reciproco volersi: qualcosa mi ferma, mi racconta che so essere di tanti e in realtà di nessuno. O forse la carta è l’Eremita, con la lampada accesa e il cammino indietro per non lasciare al buio i viandanti che potrebbero morire per lo spavento. Mostrare la strada e non avere accanto qualcuno che la condivida con me. In effetti una candela è accesa accanto alla mia mano destra e l’incenso brucia spargendo polvere beige sul ripiano della scrivania. Ho imbevuto una pietra e le dita con olio di rosa circondata dallo sguardo enigmatico e severo di un idolo messicano scolpito in nero (regalo di una mia paziente amica). Per denudare lo scheletro devo muovermi e giocare con la psicomagia, tacere e disconnettermi e parlare e condividere. Devo essere tutto e niente, bilanciare il maschile e il femminile stando attenta a dove spruzzo l’argenteo colore della femmina in queste ossa che tiro fuori dal grasso e dalla carne.
L’odore della donna che mi desidera, il suo unico e irripetibile afrore, le parole sussurrate e la voce urlata a mordere i lobi delle mie orecchie. La bellezza del profilo del suo corpo controluce quando si alza prima di me in un appartamento che forse per sua scelta non vedrà mai più. La seta nera che oggi avvolge un cristallo nello scrigno delle magie.
C’è vento, oggi. Sono viva. Anni fa sono volata giù da una strada rotolando in un torrente con la testa contro una pietra, poi sono rinata e mi sono illusa che l’amore stesse creando una vita altrove. Anche lì sono caduta, e un’altra volta gli alberi hanno stracciato le mie vesti mentre precipitavo. Poi una donna di Luce mi ha sorriso, e porgendo la sua mano mi ha aiutato a volare: ancora non ho capito bene chi sia, ma se ne cerco i tratti al fondo della memoria scopro che assomiglia dannatamente a me.