Cade la pioggia su un loden verde

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Camminava nella pioggia e dal suo corpo sembrava uscisse fumo: era una nebbia leggera che emanava dal respiro, pronta a dissolversi o a cadere in minuti cristalli gelidi ai suoi piedi. Lo spiavo: alto, un po’ curvo avanti, con il loden verde scuro e le mani in tasca (in una stringeva sicuramente gli occhiali e nell’altra tasca giaceva il cellulare che ha perso mille volte), non sapeva che lo stessi osservando. La falcata delle gambe lunghe era il doppio di un mio passo: quando andavamo insieme, appaiati, ero costretta a correre. Ma adesso era solo: gli sguardi nascosti e obliqui della gente lo colpivano ma, per una volta, rimbalzavano senza che li notasse. Non sorrideva: non ha mai sorriso quando ridiventava se stesso nudo.
Erano pochi passi dalla porta girevole all’automobile blu che lo aspettava. Scansò l’autista che tendeva un ombrello sulla sua testa, gli fece cenno di andare a sedersi in macchina e non preoccuparsi: il loden diventava sempre più scuro, zuppo di acqua come la testa calva. E continuavo a guardarlo: sembrava che saltasse da un palcoscenico a un altro, sempre. Eppure a me e a pochi altri era dato di vederlo dietro le quinte, nei camerini, nel riposo tra un’esibizione e la successiva.
Prima di salire al posto del passeggero esitò, come se si fosse reso conto dei miei occhi: ero dietro di lui, la schiena e il bavero del loden tutto ciò che potevo vedere. Ma, nell’istante immoto in cui captò il mio amore che lo seguiva, alzò una mano per salutare qualcuno dietro di sé. Sorrisi anche per lui: sapeva chi lo stava osservando.

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