Le parole per essere ricordati: da Florence agli amori finiti
Ieri sera sono stata a vedere “Florence”, poderosa interpretazione della mia amata Meryl Streep e di un fantastico Hugh Grant. Non credo alla critica: penso che le opere d’arte debbano suscitare emozioni e non esistano persone più titolate di altre a commentare libri, film, quadri, elementi di architettura. I rari critici che mi convincono sono persone i cui suggerimenti hanno sempre incontrato il mio gusto personale: si tratta di uomini e donne che tratto semplicemente come amici con la mia stessa vibrazione estetica. Da spettatrice appassionata sono uscita dal cinema muta e travolta da una decina di pensieri, sensazioni, emozioni ipertrofiche: splendido film, meravigliosi attori e storia che dovrebbe insegnare a vivere. Perché si può vivere o sopravvivere, è proprio vero. La mia amica Lorenza, altrettanto emozionata, ha commentato così: “Per ciò che fai ogni giorno con le tue pazienti questo film è una conferma”. E sì, pensavo anche a questo mentre seguivo la vorace passione, la volontà e la tenacia dell’incredibile Florence. Pensavo a quanto l’amore per qualcosa o qualcuno possa tenere in piedi nonostante un vento avverso, a quanto l’apertura a ciò che si desidera sia in grado di prolungare un’esistenza che i medici nella loro (nostra) limitatezza definirebbero condannata. E’ ciò che Umberto Veronesi disse nella prefazione del mio primo piccolo romanzo (“Una storia ai delfini” – Creativa): le donne sanno sopravvivere meglio degli uomini perché sanno amare. Adesso che conosco bene l’amore delle donne avrei qualche critica da fare a Umberto in merito, ma tant’è.
Non ho potuto evitare di pensare a Francesca Del Rosso e al suo ultimo romanzo: di “Breve storia di due amiche per sempre” possiedo la prima stesura stampata per me da Francesca con un titolo differente (che preferivo molto), e ho vissuto il primo anelito, il pensiero primigenio e le successive vicende di scrittura. “Cosa posso fare per vivere ancora?”: non dimenticherò mai questa domanda, e la mia risposta ha risuonato nel cuore e nelle orecchie centinaia di volte in questi due mesi. “Sei una scrittrice, scrivi un libro”. Insieme all’amore di Alessandro e dei bambini, della mamma, dell’amica Ted (Alessandra Tedesco) e di tante persone intorno, il romanzo per Francesca è stato un corpo a corpo con la morte, una sfida che la ha fatto vincere mesi e mesi di benessere, impegno e salute. Ci abbiamo provato anche alla fine, ma era tardi e forse le magie valgono una volta sola. Chi lo sa.
Florence vive, altri sopravvivono. Il film si conclude con le ultime parole di lei: “Forse possono dire che non so cantare, ma nessuno potrà mai dire che non ho cantato”. Per carità, è un film e non si può girare la scena finale con roba tipo: “Mi fa male la schiena, spostami il cuscino”. Però la commozione ha avuto un coronamento degno di ulteriore memoria grazie alle parole che hanno chiuso la storia, e di nuovo la mia mente è volata a quanto spesso si buttino via opportunità felici di farsi ricordare bene con una scelta pessima delle parole e dei toni. Non si considera che accomiatarsi in modo pessimo equivalga a tracciare un solco definitivo nelle emozioni di chi riceve. Nel prossimo romanzo (ancora inedito) ho usato frasi che nel tempo ho realmente ricevuto, cambiando del tutto il contesto ma cercando di lasciare inalterate le emozioni: l’ho fatto per liberarmi dal peso del dolore deluso che quelle frasi hanno suscitato ma anche, soprattutto, augurandomi che leggendo si rifletta. Quale immagine di noi vogliamo consegnare al cuore e alla mente di chi stiamo salutando? Siamo proprio sicuri che non ci importi?
Ho pensato a quante relazioni che sono state belle finiscono con recriminazioni e senso di colpa di chi lascia, e incapacità di chi è lasciato di affrontare il fallimento: sono sentimenti, emozioni normalissimi che dovrebbero prendere la via del silenzio o, al più, di poche sintetiche parole che non spacchino i cuori più di quanto siano già rotti. Irrilevante, dite? No, non lo è. Quando chiudiamo una storia dovremmo sempre, sempre ricordare che stiamo uccidendo le illusioni e l’autostima di qualcuno. Abbiamo il diritto di farlo, spesso è inevitabile perché non amiamo più, ma esiste un modo pietoso per infliggere dolore e lasciarsi trascinare dal senso di colpa trasformandolo in rabbia (per esempio) è una pessima scelta.
Per chi di voi crede all’energia è evidente: queste rotture portano con sé il peggio per il futuro di chi non ha gestito bene il distacco. Ma ci sono motivi più concreti e banali: il tempo affievolisce la rabbia e prima o poi a tutti viene la voglia di sapere se chi abbiamo amato conservi un ricordo felice. Si chiama amor proprio, oppure residuo dell’amore trasformato in altro. Non è bello scoprire che chi abbiamo ferito non solo non conserva di noi il dolce e nostalgico pensiero di un amore importante, ma quando qualcuno ci nomina rivede in loop i momenti nei quali abbiamo detto stupidaggini crudeli cancellando la gratitudine per quanto di bello c’è stato.
Sorvolo sulle ultime parole prima della morte. Pochi di noi razionalmente sanno che la morte sta per arrivare, e di questo dovremmo tenere nota. Chi come me ha accesso più facile ad alcuni contatti con entità disincarnate sa di cosa parlo: niente, neanche il più piccolo gesto sgarbato, passa inosservato alla nostra energia. Meglio morire senza avere sospesi emotivi (e non solo emotivi): cambiare dimensione senza avere porto le scuse a chi abbiamo ferito, detto un ti amo in più piuttosto che uno in meno, accarezzato qualcuno cui abbiamo negato qualcosa è una specie di catena. Più dolore creiamo meno velocemente evolviamo, di qui e di là.
Ma queste sono solo le mie solite follie.
Buon Anno!