Non scrivo di malattia, scrivo (sempre) d’amore

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“Non interrompete le vostre vite”, si era raccomandato. “Altrimenti questa malattia avrà rovinato tre di noi invece di uno”. Mitch Albom “I miei martedì col professore” (traduzione di Francesca Bandel Dragone), BUR 2009.

 

Unica nel mio vagare tra decine di libri letti nelle settimane recenti, questa citazione è perfetta per il pezzo di scrittura più ovvio e disagevole del mio curriculum. La malattia rovina, anche quando è infilata nei libri: la sua menzione andrebbe dosata perché non si limita a restare parola e assume forma, colore, odore, diventa realtà psicologica e, alla lunga, manifestazione fisica. Non si tratta di magia, è il potere evocativo del pathos letterario. Parlare di malattia nei romanzi è abitudine comprensibile e qualche volta necessità, è un bisogno di sfogo ed elaborazione di tanti lutti. Ma richiede cautela.

Dovete sapere che ogni volta che sbarco in un contesto letterario, giornalistico e comunicativo la scissione di personalità (visibile in tutto ciò che è me, soprattutto nella duplice professione di medico e scrittrice) fa pendere la bilancia verso la medicina. La medicina è una tentazione irresistibile ovunque, letteratura e giornalismo compresi. Da Cechov a Vitali a tutti i medici scrittori che vi vengono in mente (me compresa), non è vero – come dicono alcuni – che lo scrittore fa dimenticare il medico: il medico occhieggia nel mezzo della scrittura (pensiamo a Cechov e al suo lasciarsi andare a considerazioni sulla prognosi del tumore al seno in un racconto dove il dettaglio è quasi trascurabile), e maneggiare il corpo umano e la scrittura con la medesima scioltezza sembra inquietante.

Esisto in un limbo irrisolvibile: quando sto in mezzo ai medici sono considerata una scrittrice, se sono in compagnia di colleghi scrittori mi si presenta come medico; ecco perché diventa inevitabile che all’inaugurazione di un nuovo blog o di una collaborazione giornalistica l’argomento che mi si attribuisce sia la malattia. Il cancro, più propriamente, anche se mi è capitato che i gradi di libertà fossero maggiori e potessi azzardarmi e parlare di malattie meno terrificanti e mortali. E’ un destino beffardo perché la malattia non merita di diventare oggetto e soggetto di scrittura. Lo meritano le persone, le storie delle persone: l’amore e il dolore, la speranza e la tenacia, la gioia e lo stupore, la fatica e la disperazione con le loro sfumature più sottili e varie possono giustificare la scrittura di un libro, ma la malattia no. E’ come se volessimo rendere famoso ciò che uccide, come se decidessimo di caricare di energia (l’attenzione non è altro che energia vivificante) il peggiore nemico: semplicemente, non si dovrebbe fare.

Non trovo alcunché di poetico nella descrizione, seppure letterariamente ineccepibile, di ciò che può guastare, corrompere, uccidere il corpo fisico: considero invece una delle forme più alte di poesia fissare lo sguardo su chi a vario titolo si trova a confrontarsi con il mutare impietoso del corpo verso una condizione sempre più aliena, a volte verso la morte. In quegli occhi, in quelle mani, in quei respiri difficili e nei pianti e nel ridere insensato e nel fare l’amore per sentirsi liberi e sani trovo il senso dello scrivere (e di leggere opere che ne raccontano). Non serve riandare ai libri letti ora e in passato per trovare il ricordo di decine di insegnamenti di vita e morte ricevuti da chi aveva perso la salute in modo temporaneo o definitivo, e forse è questo che ci fa scrivere: insieme alla voglia di immortalare volti e momenti che ci hanno cambiato la vita speriamo di diffondere il risultato delle prove cui siamo stati sottoposti. Vogliamo raccontare cosa abbiamo imparato, e da chi, soprattutto se i Maestri sono stati portati via.

Quando, incauta, ho usato i social network per chiedere consigli di lettura in vista della scrittura di questo pezzo che dovrebbe legare letteratura e malattia sono stata sommersa da indicazioni che ho cercato di accogliere nella totalità: il semplice colpo d’occhio sulla scrivania ora, mentre scrivo, potrebbe suggerirvi che da settimane non faccio altro che leggere e ho sicuramente investito una cifra consistente per documentarmi fino qui. Ho letto storie vere o possibili, di solito nate in seguito all’esperienza personale degli autori o di qualcuno che loro avevano amato, ho letto invenzioni plausibili oppure disarmoniche, sono ritornata ai classici e ho saltato qua e là tra le opere nuove cercando di non scivolare nel livellamento del pensiero e dei volti evocato da Camus nel suo “La peste”. E ho concluso che nel mondo sterminato della letteratura l’argomento della malattia con i suoi personaggi e interpreti apre porte su spazi ancora più vasti. Non esiste una letteratura della malattia, ma abbiamo a disposizione migliaia di libri che fissano lo sguardo sulla malattia per parlare delle emozioni che ne derivano.

La malattia segna il prima e il dopo, le persone attraversano lo spazio istantaneo della diagnosi inconsapevoli di questo prima e del probabile dopo: è una frattura che si rivela nel tempo, diventa ricordo e rievocazione indelebili e scardina per sempre il punto di vista. E’ un salto quantico che arriva e modifica il panorama nel suo insieme, ma anche i dettagli più sottili: che sia un incidente o un tumore o una disabilità di qualche genere, che affligga parzialmente o totalmente quasi non ha importanza perché il momento prima e il momento dopo esistono sempre, e caricano di pathos la scrittura. La giustificano, nella maggioranza dei casi.

Su tutto, è il dolore a disintegrare la vita certa e le sue caratteristiche per instaurare il regno dell’improvvisazione: in tutti i libri che ho letto la malattia, cioè il dolore che ne consegue, ha frantumato legami ed elementi noti e costretto i protagonisti a improvvisare. Si improvvisa per paura, per sconcerto e per amore: si improvvisa perché di fronte alla tragedia non si ha altro da fare. Improvvisano i pazienti e i loro familiari, improvvisa chi precipita in una condizione di dipendenza continua dai medici e dagli infermieri, improvvisa chi rifiuta le cure e chi le porge per tentare di salvare vite e amori, improvvisa chi sa di morire e chi lotta per restare vivo, improvvisano gli scrittori che analizzano il funzionamento degli ospedali illudendosi di essere obiettivi (nessuno colpito da malattia potrebbe mai esserlo, ed è giusto che sia così), improvvisano i parenti smarriti nei mesi cocenti del lutto. Improvvisa chi ama, chi rifiuta, chi tenta di aiutare e chi fugge. Ecco, se una cosa posso dire di questi chili di letteratura macinati nella mia vita – e in questo periodo in modo speciale – è che la perdita dell’illusione di una certezza, di una stabilità costringe i protagonisti a uscire dalla zona dell’agio interiore per spingere brutalmente in un disagio che si affronta come si può.

Ho improvvisato ogni singolo giorno del mio essere medico e scrittore, e in ogni pagina dei romanzi recenti che ho scritto mettendo insieme medicina, medianità e amore: a nessuno è data la verità sulla malattia, le lezioni che ognuno trae sono così diverse e speciali che diventa ingiusto indicare questa o quella esperienza come salvifica e significativa. Certo, un denominatore comune di solito è l’amore: anche quando la malattia è descritta come catastrofe naturale o punizione divina, come scherzo del fato o cieca necessità di selezione è l’amore a rendere uniche le visioni dei protagonisti. L’amore per se stessi sani e malati, l’amore per il coraggio di chi si ha accanto nel dolore, l’amore insensato e folle per la sopravvivenza al di là di ogni logica e ragionevolezza. L’amore che sfocia, spesso, in un’ironia tutta speciale che solo i malati sanno possedere: è l’ironia della consapevolezza, una specie di distacco orientale che affianca il Buddha che ride e la risata di Alejandro Jodorowsky (insieme all’abbraccio, la risata per Jodorowsky è terapia efficace per ogni problema, anche per i drammi più strazianti).

Scriviamo e leggiamo di uomini e donne, di bambini e anziani, di storie e ricordi, di amore, amore e amore. Ma non scriviamo di malattia: per favore, no.

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