In volo. Da Milano a Bucarest, un pomeriggio di gennaio.
Odore di cibo come da un diffusore di aromi: sono le vaschette blu che lo stewart ha distribuito a sei o sette passeggeri che devono avere acquistato la colazione a bordo. Va avanti e indietro con queste vaschette e ha spalle dritte, larghe, riempiono la camicia bianca e sottolineano perfette la barba giovane, castana, curata. Riconosco in lui il giovane innamorato che, un’ora fa, si è avvicinato alla ragazza in piedi di fronte a me nella fila dell’imbarco: le ha parlato inglese, con un imbarazzo tenerissimo.
- Good morning.
(Non era mattina, ma ho pensato che si fosse svegliato tardi e il tono complice e timido mi ha portato a immaginare una notte di erotismo – la prima, forse – e i loro corpi ripuliti da una doccia e un saluto sorridente senza prima colazione).
- Hi!
- How are you?
L’ha tolta dalla fila, le ha sussurrato che per lei non c’è problema. Non ha la necessità di aspettare. Invece di irritarmi mi ha scaldato l’anima: amo la delicatezza goffa dei primi approcci nudi. Unico punto a mio sfavore: la ragazza era bellissima e non mi dispiaceva averla a pochi centimetri da me.
L’uomo che occupa il sedile qui accanto si è addormentato.
Alla mia sinistra il finestrino, e l’ala grigio chiaro su cui l’aereo proietta un’ombra a quadri alterni.
- Posso avere un posto sul corridoio?
- Certo, signora.
Naturalmente mi ritrovo seduta accanto al finestrino, e l’aereo non è pieno: rido, oggi è san Mario e non ho voglia di arrabbiarmi anche se da questa mattina il nervosismo è ritornato spesso.
Eppure queste montagne che sfilano sotto di noi, la neve, i paesi infilati nelle gole e nelle valli riescono a placarmi. Penso ad altra neve e altri luoghi, al terremoto e alla slavina su un albergo con tanta gente dentro: luce e buio si alternano nei medesimi pezzi di mondo con una rapidità imprevedibile e ciò che appare incantato si trasforma in nemesi, e ritornerà di nuovo fiaba poco più in là. Succede che mi fermi a osservare lo spazio, ogni tanto, e lo immagini martoriato da catastrofi oppure vivido di una pace che simula l’eternità: gli stessi metri, gli stessi centimetri resi paradiso e inferno, vita e morte.
Con lo sguardo seguo un fiume, migliaia di metri sotto l’aereo. Mentre prendevamo quota ho provato a riconoscere Calco, la casa dei miei genitori, e intanto ridevo di questa infantile illusione da piccola esploratrice. Non so dove siamo adesso: non in Italia, è evidente. Noto un’autostrada che si srotola su un viadotto incastrato tra due montagne la cui cresta è lunga, lunga, lunga. Una hostess bionda con il rossetto lucido su un paio di labbra gonfiate dal silicone osserva i tavolini vuoti ed evita di sorridere: non so perché, mi fa ripensare all’uomo con i baffetti e la divisa della Polizia che ha controllato i passaporti appena prima del gate B26. Scortese, pignolo in modo abbastanza inutile, per niente disposto a salutare o a mostrarsi cordiale. Mi ha rimproverato perché ho atteso troppo vicino a lui e all’uomo che mi precedeva: forse non avrebbe voluto che notassi che lasciava passare qualcosa, conosceva quell’uomo con la barba e l’aspetto del viaggiatore abituale e maneggiavano fogli occhieggiando intorno per non essere notati (ecco perché li ho notati: ottima strategia, la loro). O forse era solo un momento sbagliato, un odore sgradito, una noia impossibile da mascherare. Era un punto di vista, niente di più, ma mi ha incuriosito. Cosa nasconde la gente così? Cosa nascondo quando mi sento come loro?
Guardo giù: le montagne sono molto più basse, adesso. La neve è polvere spruzzata nei prati e nei paesi, sembra grigia a macchie poi ritorna bianca dove le case diradano. Strade nere stagliate, nette, sullo sfondo chiaro: è un’arteriografia, e il paragone inorridisce appena nato. E’ come tastare l’arteria radiale per controllare il polso mentre si tiene la mano della donna amata: uno dei gesti meno romantici e più inevitabili se si è medici. E se si è scrittori? Si guarda, si registra, si trattiene. Immagini, voci, sensazioni, piccoli moti che vorrebbero nascondersi: lo scrittore coglie e immagazzina in alcuni cassetti speciali che i neuroni possono aprire e chiudere. In un certo senso, lo scrittore è implacabile quanto un medico nel suo scrutare e, in fondo, giudicare. Non è forse un giudizio come si intende di solito: non esiste il bene, non esiste il male. Ma è la lettura istantanea del medium che, pure non sapendo razionalmente, indovina.
L’ala dell’aereo adesso è totalmente coperta dall’ombra: deve essere più fredda di prima. Solida, leggera, elastica, misteriosa ala: ho visto troppi “Airport” per osservarla con naturalezza e senza temere di essere la predestinata a notare una perdita che segnalerò al comandante urlando “Oh, mio dio, quello è carburante!”. Nei film catastrofisti esiste sempre la persona che perde la calma e, prima o poi, deve essere schiaffeggiata dall’eroe di turno: mi piacerebbe pensare che sia un’esagerazione creativa ma so che è vero, di fronte a un pericolo imminente, a una tragedia o a una minaccia traumatica nessuno di noi sa come potrà reagire. In teoria, ma qui è il medico che parla, distogliere l’attenzione da se stessi per soccorrere e consolare gli altri dovrebbe aiutare, ma il primo passaggio (da me stessa agli altri) è cruciale e non sempre esiste la forza per metterlo in atto.
Paesaggio piatto e neve grigia. Sono del tutto inconsapevole della nazione che stiamo sorvolando: la verità è che non ho la minima idea di quali territori debba attraversare l’aereo per portarmi a Bucarest. Ho sempre considerato la geografia un dettaglio inessenziale: se mi serve sapere dove sto andando controllo e basta, e francamente non ho un interesse particolare per i prodotti tipici del luogo e i cenni di geologia e orografia. Scopro tutto quando serve. Vado a Berlino? Ottimo: studio Berlino. Vado a Bucarest? Studio Bucarest. Più o meno ho sempre ragionato così: scusa perfetta per non studiare geografia che mi annoiava, e quando interrogavano mi bastava aprire il libro all’ultimo momento e usare la memoria fotografica garantita dal DNA. Osservo concentrata, ricordo la pagina e ripeto.
Dovreste vedere il panorama con i miei occhi: neve bianca e nuvole soffici, basse, fitte ma evanescenti a sovrastarla. I colori dicono: freddo. Le campagne suono lunghe. L’uomo accanto continua a dormire. Con i piedi sposto lo zaino sotto il sedile davanti, mi chino e riesco a estrarre il biscotto alla vaniglia e cioccolato che rappresenta la merenda obbligatoria delle 16.15: chiunque abbia inventato questi prodotti ha la mia benedizione. Sto andando a dire al dietologo (un greco che riceve anche in Romania: solo i veri psicopatici sanno scegliersi queste comodità abitando a Milano) che ho perso quasi quindici chili e non intendo fermarmi. Avrebbe voluto che ne perdessi venti: si dovrà accontentare. Quindici chili in due mesi con il Natale di mezzo mi rendono fiera di me stessa, quasi quasi domenica festeggio con una confezione lusso di palline di carne di manzo della fase due (sono in fase uno, non potrei toccarle ancora). E’ inutile, non rimproveratemi: non credo agli approcci alimentari buoni per tutti e non propagando alimentazioni sane “a priori” perché non esistono. Non ci credo neanche da medico. Fate il vostro meglio ascoltandovi: ecco il segreto. Ogni corpo ha un proprio meraviglioso equilibrio, e in teoria anche un pilota automatico che permetterebbe di mangiare sano in modo individuale. I bambini nascono con un loro istinto, poi i medici miei simili e i nutrizionisti fanno ogni sforzo per cancellare, distruggere, annientare le straordinarie facoltà di autogestione scritte dentro ognuno di noi. E riescono, purtroppo. La gente più sana che ho incontrato non segue dettami altrui: regola il proprio vivere ascoltando se stessa. E non sbaglia mai. Tutto questo per dire cosa? Niente di speciale: grazie alla mia amica Viky ho trovato la dieta che fa per me, il resto non conta.
Hanno spento le luci dell’aereo: forse sorvoliamo una zona non proprio tranquilla. E’ coperta di nuvole, nessuno spiraglio. Ma in fondo, oh meraviglia, la fascia rosa del cielo che sfuma a giallo e a verde e a un azzurro pieno. Ho voglia di leggere poesia, di scrivere un romanzo nuovo, di toccare i miei libri e sentirli figli. Sono curiosa di vedere i prossimi che pubblicherò, gli editori che li ameranno e i lettori che vorranno commentarli. Quando l’aereo ha accelerato per decollare l’adrenalina mi ha strizzato di piacere, come quando scrivo l’ultima correzione dell’ultima riga dell’ultimo scrupolo prima del visto si stampi. Vedo l’amore che arriva: me lo hanno detto in tanti, ma lo vedo anch’io. E sorrido, come per i due giovani imbarazzati prima dell’imbarco.
E l’ala è tutta in luce, adesso.
P.S.: ho da ringraziare la signora del check in. Questo posto accanto al finestrino mi ha donato un volo fatato.