Appunti di viaggio e d’amore perduto (forse)

 In Blog, Racconti è un’invenzione in realtà

Ancora non mi rassegno agli occhiali: allontano il libro e sistemo meglio le gambe sulla predellina, l’unico altro passeggero picchietta svogliato sullo schermo di un tablet e scruta il cappotto sistemato di traverso su due sedili. Ci sono, ma sono altrove: nella storia che decifro oltre la patina sbiadita della presbiopia, troppo orgogliosa per ammettere che basterebbe allungare la mano nella borsa ed estrarre una delle otto versioni di lenti che attendono ironiche la mia rassegnazione all’età. Ho fatto fatica: è un libro che parte durissimo, e a me il buio non piace. Però. Pagine e righe, curiosità e orgoglio mi ci hanno tuffato, e non so tirarmi fuori.

-Permette?

La voce di un uomo mi raggiunge appena. Non si rivolge a me: oltre la cortina del campo energetico non scorgo altro che una figura alta, un cappotto tipo loden e una testa stretta, con pochi capelli a spruzzi grigi su fondo nero. Per un istante, forse meno, mi chiedo a chi stia domandando permesso: siamo in due, in questa carrozza, ha tutto lo spazio che vuole. O forse esiste un’anima sprofondata poco più in là che non ho potuto notare.

La storia nel libro, mi interessa quella: carrozza, sedili, cappotti di traverso, paesaggi a sfilare svaniscono. Dovremmo essere a Reggio, più o meno: ho tirato su gli occhi per controllare – in un respiro fuori dai tormenti dell’altro mondo che mi sta ospitando – ma faccio fatica a mettere a fuoco. So cosa accadrà: per alcune ore, quando avrò chiuso il romanzo, la vista sarà uno sfocarsi di forme senza individualità, come se ritornare a ciò che alcuni chiamano realtà fosse inaccettabile.

Un rumore, il carrello con le bevande: chiedo la solita acqua naturale, rifiuto lo snack e guadagno un caffè. La donna che porge bicchiere e tazzina allunga un sorriso qualunque, poi si ferma e sulle labbra spunta una piegolina minuta, una smorfia erotica che solo io posso notare. Alla mano sinistra tre anelli: uno sul pollice, come piace a me. Ha i capelli corti a zazzera, castano scuro, un fisico che – sono certa – lei definisce normale e la passione per le donne che si annusa al volo.

-Posso offrirle altro?

-Forse, dopo.

-Beh, allora ritorno. Prima di Roma ci si rivede.

Deve avere cinque o sei anni meno di me e neanche un’ombra di esitazione: ascolto le reazioni del corpo e decido che mi piace, se non ritorna la vado a cercare.

Poi, mentre ritorno alle pagine, due piedi: scarpe stringate troppo lucide per essere eleganti, il fondo del pantalone cade perfetto e copre senza esagerare. Il problema è che questi piedi sono fermi qui, a mezzo metro dal sedile, rivolti verso di me.

-Non è piazza del Popolo, ma può andare bene.

Dio. Santissimo Dio. Di nuovo è il corpo a reagire, la mente annega e cerca appigli. Non posso alzare lo sguardo: non sono capace.

-Come stai?

Come ho fatto a non riconoscere la voce, prima? Perché sono rimasta chiusa, impermeabile, estranea quando il cappotto tipo loden e la testa lunga hanno invaso un briciolo marginale della mia attenzione?

-Come stai?

Inizio un sorriso piccolo: se non gli rispondo non si sposta fino a Roma.

-Che sorpresa.

-Non tanto. Hai detto in Facebook che vai a Roma.

E lo guardo, finalmente. La bocca si apre, credo di avere l’espressione più idiota del campionario a mia disposizione.

-Cioè?

-Cioè dovendo ritornare a Roma ho semplicemente scelto il treno giusto. Vogliamo sederci insieme, per favore?

Acchiappo borsa, foulard, libri, astuccio, giaccone e lo raggiungo più in là: indica il posto di fronte al suo.

-Allora come stai?

-Bene, grazie.

-Risposta standard, anche io sto bene.

Poi accartoccia le labbra e alza gli occhi: so cosa gli sta succedendo, nel trasloco qui ho imboscato un quotidiano che avevo lasciato aperto sulle notizie che lo riguardano. Non vorrei farlo, ma lo seguo in una risata che parte timida, quasi un azzardo, cresce nei toni e non sa più fermarsi. Ridiamo e continuiamo a fissarci, si sporge avanti e prende la mia mano e continuiamo a ridere, ridere, ridere: se passa qualcuno lo riconosce e pensa che sia ammattito. Cosa può avere da ridere? Ma io so, cosa. E anche lui. Infatti le parole escono brutali, appena riprende fiato.

-Ne abbiamo fatto di casino, in questi anni separati.

-Tu, non io.

-Certo. Scusami, non so come ho potuto pensare di accomunarti a me.

Abbassa la voce.

-A proposito, prima di Tiburtina quella torna. Sei su piazza, caccia libera, vero? Meno male, era ora: ti riconosco, finalmente. Stavo perdendo ogni speranza di rivederti viva.

-Ehi.

-Cosa ho detto?

-Guarda che sei stato tu a.

-Quante storie. Tra noi è finita perché lo hai voluto tu, per me andava benissimo.

-E lei?

-Ah, nel romanzo l’hai descritta con tale gentilezza. Grazie. E a me hai tirato una gufata.

-Non sei tu.

-No, è mio cugino.

Non stiamo litigando, neanche discutiamo: troppo tempo in mezzo, troppa rabbia svanita, troppo amore trasformato. Ho in gola uno strano, piccolo nodo, e so che i miei occhi sono lucidi.

-Sono felice di vederti.

-Anche io. Posso scattarti una foto?

-Oh, dai.

-Posso scattarti una foto?

Armeggia con un iphone, inquadra e scatta.

-La voglio bianco e nero.

-Grazie, così vedi meglio le rughe.

-Scema. Guarda.

Osservo: la luce, la pace, il significato dello sguardo. Senza riflettere dico la prima cosa.

-Ho avuto veramente due anni di merda. Si vedono proprio tutti.

-Non sei mai stata così bella, amore mio.

Il piccolo nodo si scioglie, le lacrime scendono a blocchi fluidi e compatti. Si alza, cambia posto: siede accanto a me.

-A piazza del Popolo, a una certa ora. Vale sempre. Sai quante volte sono andato.

-Anche io.

-Andrà bene, sei stata in gamba. Sei qui, non ti sei fermata: hai accettato bellezza e orrori e hai voluto che ti migliorassero. C’è gente che sta fissa una vita su blocchi che ha troppa paura per risolvere. Sei una donna che non ha paragoni.

-Dai.

-Sai che è vero.

No, non lo so. Non me lo sono mai detto, non l’ho pensato. Non mi interessa. Le sue braccia ritornate solide, il corpo ad accogliermi, la voce flebile con l’accento strano di uno che non sta più in nessun posto.

Aspetta che smetta il pianto quieto, poi chiede cosa abbia scritto, quali libri pubblicherò: glielo racconto, annuisce e ascolta come solo lui sa fare. Pone domande pratiche, con un puntiglio privo di fantasia che mi fa sentire a casa.

-Ma di te non mi dici niente? Sei felice?

Non abbassa lo sguardo, il sorriso si fa pacato, potrebbe essere un padre paziente che affronta l’ennesimo trabocchetto verbale di una figlia insicura.

-Sai qual è il mio concetto di felicità.

-Allora lo sei.

-Per ciò che so fare.

-E lei?

Appoggia una mano sulle mie labbra.

-E tu? Sei felice nella nuova te? La tizia che ti aspetta prima di Tiburtina non è male.

Il silenzio cade, mi viene voglia di dormire. La testa nell’incavo della sua spalla, ascolto discorsi e resoconti di vita che vuole condividere e scopro che non ha perso un solo momento di me in questi anni.

-La tua mania di controllare.

-La tua mania di lasciare briciole, come Pollicino.

-E tu le hai seguite.

Arriviamo a Tiburtina e non ho più visto la donna che mi piaceva, scendiamo e non mi stupisce vedere una macchina blu scuro un po’ defilata rispetto ai taxi.

-Buonasera, Giulio.

-Buonasera, dottoressa. Che piacere rivederla.

Ci accomodiamo dietro, nel tragitto fino all’albergo mi tiene la mano. Poi, prima di vedermi scendere, infila un biglietto nella borsa.

-A piazza del Popolo, a una certa ora. Ma per precauzione stiamo in contatto qui.

-Posso.

-Sì, puoi telefonare e scrivere quanto ti pare.

-Sempre?

-Sempre. Questo è il modo di trattare una donna amata come te. Mettimi alla prova.

-Ma io non.

-Scarta la banalità: non ci sto provando, non voglio questo. Sto recuperando l’amore, che può avere forme impensabili.

-Sei cambiato.

-Anche tu. Meglio così. Chiamami, ci conto.

Solo molto dopo, durante una cena perfetta affacciata su una Roma di meraviglia ritrovata, penso che sì, forse lo farò: lo metterò alla prova. Ad alcuni il tempo insegna, ad altri no.

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