Storie di matrimoni
Ho incontrato Alessandro in un resort: uscivo da una storia finita male e avevo deciso di restaurare il cuore con uno dei più grandi classici del lutto amoroso, il viaggio da sola senza badare a spese. Quando lo notai seduto da solo a colazione sotto la tettoia affacciata su una spiaggia pensai di averlo già visto da qualche parte, ma lasciai perdere e lo dimenticai: avevo portato con me lavori scientifici da correggere e alcuni libri, e volevo dedicarmi alle immersioni senza che il pensiero di una nuova conoscenza disturbasse la quiete. Il fatto è che Alessandro non ha mai amato che qualcuno lo dimenticasse: a un certo punto, verso la fine della vacanza, iniziò a girarmi intorno con piccole battute e sorrisi, saluti un po’ più lunghi del normale, scambi da niente che accorciavano la distanza.
-Sono di Roma, e lei?
Quel pomeriggio mi piacque l’energia ferma e determinata che notavo nell’approccio: sembrava che non fosse disponibile ad accettare un mugugno distratto. Così decisi di rinunciare alla barriera: si era seduto sulla sabbia accanto al mio lettino, era molto più abbronzato di me e la pelle luccicava.
-Di Roma, anche io.
-Guarda tu.
-Già.
Fu un esordio tipico: non mi viene in mente coppia più noiosa – nell’ambiente medico – di quella tra anatomopatologo e radiologa. Le specializzazioni non sono tutte uguali: alcune hanno verve, fascino, attrattiva, altre invece sembrano riservate a persone stanche già al mattino, con occhiali spessi due dita e vestiti fuori moda. Le immagini lente e puntigliose, incapaci di cogliere il senso delle battute e non disponibili a porsi il problema di sorridere: formano crocchi tra loro e discutono di mitocondri, rigor mortis, microcalcificazioni a tendenza evolutiva, fibrosclerosi renale, pre-eclampsia come se non vedessero altro. Il massimo dell’eccitazione arriva con l’emoglobinuria parossistica notturna o con il caso rarissimo di sarcoma insorto su protesi metallica della testa del femore: roba da case report su una rivista scientifica con alta indicizzazione! Anatomopatologo e radiologa, appunto. La medicina di laboratorio potrebbe forse essere peggio rispetto all’anatomia patologica, ma sono abbastanza simili da suscitare un sussulto di sorpresa quando si dichiarano agli amici: cosa ti laurei in medicina a fare se diventi un topo da laboratorio o, peggio, da camera mortuaria?
Quando confessammo chi eravamo ci venne da ridere: bizzarra situazione scoprirsi macigni professionali al risveglio di un mattino dopo la prima, clamorosa notte erotica tra noi. Perché ciò che era accaduto ai nostri corpi sudati era molto lontano dalla noia asfittica delle sedi ospedaliere.
-Oh, santo cielo! Una radiologa.
-Eh, perché tu invece. Un patologo. Professore universitario, Gesù!
-No, un po’ meno di Gesù.
-Però universitario: forse ti senti più simile a Dio, Gesù è ancora troppo in basso per te. E anatomopatologo. Detestavi i pazienti in grado di parlare?
-Come te, a quanto pare.
-Più o meno.
-Serviamo anche noi. Anche se è vero: non dobbiamo avere una grossa passione per i pazienti vivi e svegli, che pongono domande.
-Vale anche per i chirurghi, se ci pensi.
-Certo, ma loro sono loro. Tu hai una relazione mediata da macchinari, io li scelgo addirittura morti o analizzo i loro pezzi, figurati. Più evidente di così.
Aveva ragione: della mia professione amo il silenzio, e lo stesso valeva per lui. Per quanto assurdo possa sembrare trascorrere la maggioranza della vita entro stanze e corridoi senza finestre, bui e con un leggero tanfo di malattia nonostante la ventilazione forzata, la nostra idea di aiuto all’umanità è nella ricerca ossessiva, l’osservazione, la concentrazione su dettagli che potrebbero fare una differenza. Meno rumore abbiamo intorno più funzioniamo, meno caos ci travolge più sappiamo curare.
Nessuno dei due si sentiva noioso: semplicemente sapevamo quale idea avessero di noi i colleghi lanciati nel firmamento della clinica e della chirurgia.
-Certo come radiologa hai tante doti insospettabili.
-Posso dire lo stesso di te: non credevo che i patologi possedessero un vigore come il tuo.
Andammo a letto subito dopo avere intavolato una minima discussione tra noi e scoprimmo che funzionava, avevamo la stessa disinibita passione per le parole buttate lì a eccitare e per ogni gioco sessuale che ci rendesse bagnati, travolti oltre i limiti, voraci con il bisogno di saziarci nel più breve tempo possibile. Non avevo l’abitudine di riflettere troppo su ciò che mi accadeva, a quel tempo, ma le poche volte che mi soffermai a osservarci mi resi conto che avevo finalmente incontrato il partner erotico perfetto: il fuoco inemendabile che da sempre accendeva le mie viscere non solo gli piaceva, ma era simile alla sua fame continua, eccessiva. Insomma i primi mesi furono una sequenza di incontri sessuali ad alta performance acrobatica: un’alchimia assoluta. Nessuno dei due si chiedeva cosa sarebbe accaduto, o almeno così credevo: immersa nel bozzolo dei miei studi e del vai-e-torna dall’ospedale e da un paio di centri privati nei quali facevo libera professione non avevo la voglia e il tempo per chiedermi cosa provassi per lui. Scopavamo da dio e quando scambiavamo messaggi o telefonate eravamo capaci di suscitare orgasmi adolescenziali: questo bastava e per un po’ sarebbe andato benissimo. Notai però che iniziava a invitarmi alle cene con i colleghi dell’università e a presentarmi come la sua compagna, cosa che io non facevo, e la mia casa progressivamente cambiava aspetto: un giorno a insediarsi erano i suoi appunti, un altro l’accappatoio, un altro ancora la collezione delle macchinine che conservava da quando era bambino. Finché, una sera che assomigliava a tutte le altre, si alzò dal letto ancora con il fiato corto e, nudo e sudaticcio, mi chiese di sposarlo.
-Puoi ripetere?
-Sposami. Sono serio. Sposami.
-Ma tu.
-Ti amo, sì. Non te l’avevo detto?
-Veramente no.
-OK, te lo sto dicendo.. Ti amo, Lucrezia, sposami.
Tre, quattro, cinque secondi: so che sorrisi ma non fui lesta e me lo rinfacciò sempre, dopo. Non me l’aspettavo, non avevo mai pensato di essere destinata a sposarmi. I neuroni prima si bloccarono poi schizzarono al massimo dell’attività calcolando, immaginando, costruendo scenari: perché avrei dovuto sposare Alessandro? Lo amavo? La nostra intesa fisica sarebbe andata avanti a lungo, ma quanto? Alla fine dissi di sì, e ammetto che la motivazione vera fu: perché no? Probabilmente lo amavo: pensavo a lui con piacere e desiderio, aspettavo le notti insieme con un movimento emotivo che poteva assomigliare all’ansia, osservavo la sua crescente dedizione con una gioia segreta che, per orgoglio, mi preoccupavo di nascondere. Quindi sì, lo amavo, e sposarlo – anche se non rientrava nei piani per la mia vita – sarebbe stato un esperimento affascinante.
Successivamente la mia relativa freddezza nell’accogliere la proposta matrimoniale diventò argomento di chiacchiere con gli amici: gli piaceva molto il ruolo del seduttore e il fatto che non mi fossi gettata ai suoi piedi, commossa e grata per l’alto onore, lo aveva colpito. Riletta oggi, quella sua fascinazione per il mio lato gelido, solitario, leggermente autistico spiega tanto di lui e di come andò la nostra vita: l’errore più evidente che avrei potuto commettere sarebbe stato abbandonarmi a un innamorando plateale e folle, consegnandomi con lo sguardo languido e perso. Il rischio, vista la sua propensione a mettersi in relazione con donne in ogni contesto sociale, personale e lavorativo, sarebbe stato che incontrasse un’altra con la medesima bulimia sessuale e maggiore freddezza nell’accoglierlo. Magari biondo chiaro, magari flessuosa e sexy, magari di ascendenze tedesche con un non so che di falso nel modo tutto particolare di salutare quasi inchinandosi a chi incontrava.
Ci sposammo: avevo in mano un bouquet di tulipani e avevo scelto un completo crema giacca-pantalone il cui unico vezzo era un microscopico fiocco di tessuto alla base della scollatura. Un reggiseno imbottito (molto imbottito) inventava un paio di tette che non avrei posseduto neanche con la tempesta ormonale della menopausa. Non ero stata tanto a controllare il risultato del trucco che io stessa avevo creato e una mia amica mi salvò in extremis da una macchia di mascara che non avevo notato sotto l’occhio destro. Un paio di ore prima di uscire da casa avevo ricevuto una fugace visita di Alessandro che aveva voluto scopare in piedi, appena al di là della soglia: secondo lui questo rito pagano avrebbe portato fortuna. Ebbi il tempo di sistemarmi e lavare via i segni di noi e lo trovai ad aspettarmi fuori dalla sala comunale insieme ai testimoni: erano tutti universitari salvo mia sorella Lidia, volata dal Brasile per l’occasione. Lidia è l’unica parente che mi rimane, ha quindici anni meno di me e abbiamo in comune solo il padre. Quando le offrii il biglietto aereo per venire a fare da testimone rifiutò e disse che l’avrebbe pagato da sola.
Un po’ tesa per l’incertezza di sposarmi con un tizio cui mi legava il sesso e forse poco altro scesi dalla macchina e mi avvicinai a Alessandro.
-Sei bellissima.
-Anche tu.
Lo era sul serio e fu una delle poche volte che indossò una cravatta. Professore universitario o meno, detestava la formalità ma al matrimonio diede il meglio di sé. Completo di alta sartoria blu scuro, scarpe eleganti ma non nuove, cravatta di Marinella che aveva recuperato da uno dei rari doni di pazienti (ai patologi si regala poco, non devo spiegare perché). Nei quindici giorni precedenti aveva perso cinque o sei chili eliminando i carboidrati: voleva essere magro per adeguarsi a me, che non ho problemi a restare secca come un’acciuga in qualsiasi condizione alimentare. Se mi si osserva di profilo si vede a stento un manico di scopa alto circa un metro e settanta.
Provai emozione quando mi fu chiesto se volessi diventare sua moglie, e quando mi piazzarono davanti il registro per la firma. Di Alessandro amavo l’odore, il sapore e la vibrazione, la voce e l’aspetto serio, concentrato. Mi piaceva che non avesse inibizione nel prendermi quando gli veniva voglia e nel confessare le fantasie, che sapesse cucinare ed esplodesse nelle risate più fenomenali che mi fosse capitato di vedere. Non apprezzavo la sua propensione a conquistare sempre l’attenzione delle donne, ma in quel momento non mi sembrava un problema.
Nei primi mesi andammo a vivere nel mio appartamento, poi fu trasferito dall’università in un ospedale nella zona sud di Roma e, più per comodità che per reale ambizione, anche io ottenni di lavorare nel medesimo istituto. Trovammo un appartamento in un centro residenziale a due chilometri dall’ospedale e il matrimonio marciò tronfio senza che l’attrazione diminuisse o esistesse il problema di frequentarci troppo: entrambi inabissati in reparti simili a bunker (anche se il suo aveva, anzi ha tuttora le finestre) ci ritrovavamo la sera come se fossimo stati su pianeti differenti, e la nostra abitudine di evitare argomenti professionali in casa ci permise di illuderci che niente fosse in comune e il nostro sensuale mistero potesse proseguire.
Negli anni che avevano preceduto il nostro incontro ero stata attentissima a evitare relazioni con i colleghi: sapevo cosa accade in un ospedale, conoscevo le storielle e storiacce e storie fiabesche che nascono, si infiltrano nei desideri e nel pettegolezzo, costruiscono realtà alternative rispetto a matrimoni, famiglie, convivenze. Esistono le coppie ufficiali al di là del perimetro dell’ospedale e le coppie ufficiali entro le sue mura. Pochi luoghi sono altrettante incubatrici di tradimento: è il dolore ad alimentare la voglia di distrazione, e d’altra parte con nessun altro si vive così a contatto almeno otto ore consecutive, immersi nella malattia, nella morte, nella speranza, nello stress dell’altrui terrore. Ci si consola a vicenda e si dovrebbe avere l’accortezza di limitare questa consolazione a un ottimo sesso sporadico, ma quasi mai si riesce a essere tanto bravi e le complicazioni sono all’ordine del giorno. Con Alessandro avevo abdicato, ero caduta nella più pericolosa delle situazioni: moglie di professore universitario in forze al medesimo istituto. In pratica: la condanna all’abisso.
Perché, in fondo, quando si dice di sì a un matrimonio lo si fa credendosi diversi.