Abele Gatti, un Uomo-Medicina. E noi?
Credo alla cosiddetta autofiction solo quando porta ad altro, eleva a riflessioni che possono valere per tanti e non solo per chi ha vissuto o sta vivendo una certa situazione. Quando ho iniziato a scrivere “Il Grande Lucernario” non ero convinta dell’idea: credevo che fosse inutile e per niente interessante raccontare di me. Poi ho capito, è stato il flusso della creatività a farmelo comprendere: non stavo scrivendo di me, non realmente! Stavo usando eventi, memorie, persone ritratte dall’amore per dire qualcosa di più ampio. Lo stesso accade oggi.
Un paio di settimane fa è morto mio padre, che è nel Lucernario e con me ha sempre avuto un rapporto di profondissima identità: nei giorni successivi al suo passaggio al di là del velo ho incontrato un numero di persone che mai, mai avrei immaginato. Come racconto nel libro, Abele era un medico: il medico migliore che abbia incontrato nella mia vita. E i suoi pazienti sono venuti a salutarlo: sono arrivati giovani, vecchi, sani e malati, italiani e stranieri, sorridenti o in pianto. La marea emotiva che ha travolto me e la mia famiglia avrebbe potuto essere attesa, ma è andata molto oltre l’immaginazione: quell’amore, quella gratitudine verso Abele Gatti ha curato parte del dolore urticante della perdita, ha mostrato quanto abbia avuto senso la sua esistenza incarnata. Ma più di tutto mi hanno colpito le parole.
- Non esistono più medici così.
- Era unico, la medicina non si fa più così purtroppo.
Mi aspettavo che me lo dicessero, ma non così tanto. Così tanto. Così tanto.
Non ho potuto fare a meno di fermarmi a riflettere: non era solo l’effetto del dolore, di un lutto che ha travolto i pazienti nonostante mio papà non potesse fare il medico da alcuni anni. Quelle parole cadevano regolari e frequentissime perché in parte erano vere. Sapevano di medici preparati ma assenti, meno disposti a uscire da casa per raggiungere il letto dei pazienti, impegnati a fare quadrare eccessive procedure burocratiche quindi legati a orari d’ufficio e ad appuntamenti da prendere nell’ambulatorio territoriale. E allora no, non posso farmele andare bene. Sono medico: lo sono perché ho imitato Abele. Ho il suo stesso fuoco, la medesima passione. Ho anche la sua valigetta adesso, e i libri che ha maneggiato ogni giorno perfino nei momenti di relax. Non posso accettare che la medicina sia (in parte) tanto cambiata, che i medici siano considerati professionisti privi di cuore che non vengono visitarti a casa se hai la febbre alta e affiggono cartelli in studio: “Lasciate qui l’elenco dei farmaci e troverete le prescrizioni in casella tra due giorni”. Orrore. Ho pensato a quando, due o tre mesi fa, ho cercato al telefono ogni medico possibile perché una mia amica aveva un attacco acutissimo di dolore addominale e io non mi trovavo a Milano: ho rivissuto la fatica, e il sollievo quando un collega di IEO si è lanciato fuori di casa per visitarla al posto mio. Ho rivisto Stefano Vercelloni, il medico di Medicina Generale brianzolo che ha seguito con amore e rispetto mio papà in questi ultimi suoi anni e non è mancato mai a una chiamata, e spesso ha anticipato ogni richiesta passando spontaneamente a trovarlo. E’ un uomo capace e paziente, spiritoso e amorevole che ha saputo stringere la mia mano guardandomi negli occhi quando insieme abbiamo deciso che era tempo di lasciare andare. E questa, credetemi, è una delle decisioni più difficili quando ci sei dentro tu. Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te.
Qual è la medicina di oggi? Chi sono veramente i medici?
Qualunque sia la vostra personale risposta, resto ferma a ciò che ho detto nel Lucernario e alle sensazioni cruciali, incendiarie di questi giorni di lutto e di celebrazione di un Medico vero, uno che non raggiungerò mai in bravura ma spero di uguagliare in empatia e amore e presenza: che si muoia a ottant’anni, a venti o a centodue, conta cosa abbiamo costruito nel Bene. Niente altro.