Il fonendoscopio di Abele

 In Blog

Tolgo la suoneria ai due telefoni: mi ostino a tenerli entrambi anche se ormai faccio fatica, la connessione con il mondo per la mia anima sta dentro e non fuori. Ne ho due, comunque. Uno è per tutti, per chiunque voglia trovarmi, l’altro ha un numero che pochissimi conoscono (e non ha senso visto che non mi nego mai). Li infilo nello zaino piccolo, intasato di oggetti che ritengo fondamentali, e lo sistemo sulle spalle. Sento gli spigoli dei Tarocchi e la morbidezza di un portafogli nuovo, dono di due amiche. La vibrazione basta ad avvertirmi: per qualche mistero energetico, se la comunicazione è importante la colgo ancora prima che inizi a frullare i cellulari là dove li ho nascosti.

  • Sono Giovanna Gatti.
  • Venga, dottoressa.

Le stesse parole, sempre. I medesimi gesti.

Percorro il vialetto e godo per il profumo dei fiori: è una pulizia dei sensi, il loro piacere. Incontro una donna anziana, trascina un trolley nuovo: mi saluta dopo un’occhiata alla valigetta. Il sospetto atavico delle milanesi nei confronti del prossimo si scioglie di fronte agli strumenti della medicina.

Quando arrivo al settimo piano la porta è semiaperta: la spingo e chiedo il permesso di entrare. Il corridoio è lungo, vi si aprono alcune porte: mi dirigo in fondo, Linda è nella sua poltrona e io la vedo bene perché uno specchio grande rimbalza le immagini dentro il corridoio. Noto che sta tentando di nascondere qualcosa sotto una pila di giornali: la manovra non riesce, i giornali si incastrano e riesco a vedere che sta occultando “Il Grande Lucernario”. Fingo di niente: la raggiungo, saluto e mi giro per appoggiare la valigetta sul tavolo, ma impiego più tempo del solito perché voglio che sia libera di trovare un altro nascondiglio. Se la imbarazza che mi accorga del libro deve riuscire a metterlo via.

  • Come sta?

Annuisce, finalmente soddisfatta: non so dove lo abbia piazzato, il Lucernario è sparito. Racconta di sé e dei nipoti mentre sono in bagno per lavarmi le mani, si ferma solo quando, senza la camicetta e la canottiera, si prepara a respirare come le suggerisco. Avvicino il fonendo, ma blocca la mia mano.

  • Rosa? E’ nuovo?
  • Il fonendoscopio? No, è il mio.
  • Era rosso scuro.

Sorrido. Ho capito dove sta andando a parare.

  • Questo è molto più recente. Modello lusso. Cosa ha che non va?
  • Beh… Rosso era… Non ce l’ha, quello rosso?
  • Certo, è nella valigetta.
  • Perché usa questo?
  • Il primo che mi è capitato in mano.

Esita: non le va di dirmi il motivo per cui sta facendo storie per il colore di un fonendo. Mi chino di nuovo, le chiedo di respirare lenta: lo fa per due secondi, poi toglie la mia mano dal suo petto.

  • Prenda l’altro.
  • Perché? Guardi che è freddo quanto questo: non c’è modo di scaldare questi aggeggi.

Sospira, si sposta indietro e ripesca il Lucernario da dietro la poltrona.

  • Usi quello rosso, era di suo papà. Mi fido di più.

Mi fiderei anch’io molto di più: non glielo dico e tuffo nella valigetta il nodo che rischia di bloccarmi la gola.

Recent Posts

Start typing and press Enter to search