La Via della Cura, atto primo. Il silenzio.
Quante cosa si creano nel silenzio, quante se ne distruggono.
Scrivere il silenzio è come parlare, o forse no. Ascolto un respiro in una stanza poco lontano dal mio studio, la mente vede il corridoio che ci separa e le frasi dette prima che dormisse, e scruta il silenzio popoloso che fa battere i tasti fissando una stella variopinta di tessuto messicano, con una coda rosa shocking e un cuore che è un fiore giallo. Quante volte invoco il silenzio e non lo trovo, quante volte lo raccomando nella Via della Cura. Sapere immergersi nel nulla creativo e nella pulizia energetica della quiete è saggezza: facile a commentarsi, difficile da mettere in pratica.
Ormai tutti (o quasi) sanno il fastidio che provo quando mi si costringe a una conversazione telefonica: provo a spiegarlo più volte, ma è come se scherzassi. Ogni persona si sente eccezione: “Per me non varrà, con me sicuramente vuole chiacchierare usando il telefono”. Non è così: amo gli scambi di sms (quando non si tramutano in elenchi ossessivi di battute fuori luogo), ma ogni squillo che preannuncia o richiede una conversazione a voce suscita un istante – almeno un istante – di fastidio. Le mie idiosincrasie interessano a nessuno: mi preme usarle per raccontare qualcosa sulla cura del silenzio.
Avete provato a concentrarvi rilassati e consapevoli sul “qui e ora”? Avete mai realmente considerato che non esiste passato e non esiste presente, ma solo ciò che abbiamo, facciamo, pensiamo e diciamo nel secondo e nel minuto in cui siamo? Ogni spostamento temporale è un’ipotesi: quante volte abbiamo sentito raccontare di persone che avrebbero dovuto fare questo o quello ma non sono mai arrivate al respiro successivo? Così, all’improvviso, la morte è arrivata e le ha interrotte nel loro piano perfetto per il futuro. Senza drammatizzare, la verità è che di niente possiamo creare alcunché, se non del presente: è tutto ciò che abbiamo. E il silenzio è parte di questa creazione.
Quando ricevo persone in studio capita che si siedano e inizino a parlare, parlare, parlare: ho abbandonato da anni la tentazione di interagire subito, così ascolto e osservo. E’ come se un motore automatico spingesse a riempire gli spazi che sembrano vuoti, come se la difesa dall’angoscia o dalla malattia o dall’abbandono si nascondesse nelle pieghe di discorsi come torrenti roboanti che mai smettono di precipitare a valle. Resto ferma e sorrido, colgo i segni oltre le voci. E, quando finalmente l’ondata di piena si placa, posso interagire. Inserisco pause, gesti volutamente pigri, sospiri e battute leggere: creo il nulla, attendo che gli occhi e i neuroni e le orecchie e le ansie precipitino lì dentro per scovare risposte che non sarò io a dare. Perché non è chi abbiamo di fronte a fornirci una soluzione: siamo noi stessi. L’interlocutore cui chiediamo aiuto è uno specchio, un altro noi che rilancia e rimbalza, qualche volta assorbe, idee che si nascondono nella nostra profondità.
Il silenzio è ciò che vi auguro per sempre almeno un’ora ogni giorno, ed è il regalo per me stessa. Un silenzio denso o rarefatto, luminoso o buio, addormentato o vigile. Un silenzio, qualunque sia. La mia Via di Cura inizia da lì. La vostra?